Come si fa a essere vedove a soli nove anni? È la storia di “Water”, di Deepa Metha, che racconta della povera esistenza di Chuya, che a nove anni è stata maritata dalla famiglia con un uomo anziano, morto poco dopo. Ma la tradizione induista è drastica nei confronti delle vedove: se non si gettano sulla pira che brucia il cadavere del marito o non vengono sposate da un suo fratello, devono restare vedove tutta la vita, esibendo il loro sari bianco come segno di impurità. Una tradizione atroce che ben rappresenta l’India del 1938, quando il film è ambientato, ma anche quella odierna, visto che la regista è stata più volte minacciata dai fanatici induisti per aver toccato un problema così delicato, tanto che, dopo le prime scene girate a Benares, il film è stato concluso nello Sri Lanka. ,Chuya viene rinchiusa in un ashram, una sorta di comunità governata dalla dispotica, grassa e pigra Madumati e costituita di vedove vestite di bianco e col capo rasato esattamente come lei. Tutte ad esclusione di Kalyani, che grazie alla sua bellezza e ai suoi lunghi capelli neri viene costretta da Madumati e da un eunuco suo socio a prostituirsi per pagare le spese dell’ashram. All’amicizia tra la ragazza e la bambina fanno da contrappunto le vicende dell’India, il sorgere della fama di Gandhi, le domande che si pone Shakuntala, un’altra saggia vedova che si interroga sulla condizione cui è obbligata da leggi religiose che in realtà si poggiano sull’avidità e il disprezzo della donna. Il film è formalmente molto elegante, con scene composte con ricercatezza e molto ben interpretato. Si sarebbe potuto tranquillamente reggere solo sulla storia della piccola Chuya e della sua vita nell’Ashram, anche senza l’inserimento melodrammatico della tragica vicenda d’amore tra Kalyani e il giovane Narayan, seguace di Gandhi e dell’emancipazione femminile; resta comunque un film molto bello per comprendere e discutere un paese grande e contraddittorio come l’India.,Beppe Musicco

Water
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