Il Generale Glen McMahon (Brad Pitt) viene inviato in Afghanistan dall’amministrazione di Barack Obama con un incarico importante: portare a termine una guerra che si è ormai impantanata e che si sta protraendo senza risultati da otto lunghi anni. Il militare, paladino dell’efficienza e dell’ordine, accetta la sfida sicuro della propria vittoria, attorniato dagli uomini del suo staff che lo adorano. Ma la sua sicumera e l’ostinazione a non vedere la realtà lo porteranno ben lontano dall’obiettivo prefissato. Questa in poche parole la trama di War Machine, diretto dall’australiano David Michôd (già regista degli apprezzati Animal Kingdom e The Rover) e tratto dal libro The Operators: The Wild and Terrifying Inside Story of America’s War in Afghanistan di Michael Hastings ispirato alla figura del generale americano Stanley A. McChrystal.
Che il film abbia un tono fortemente satirico lo capiamo fin dalle immagini iniziali, quando ci viene presentato il protagonista. McMahon è una vera e propria macchina da guerra: efficiente, pignolo, decisionista, organizzatore, idolatrato dai propri sottoposti e incredibilmente ottuso nella propria convinzione di essere sempre nel giusto. La sua è una parabola di ascesa e (rapida) caduta in gran parte dovuta all’incapacità di confrontarsi e prendere atto del mondo che lo circonda. McMahon non è un uomo cattivo, è semplicemente un uomo che non sa guardare al di là del proprio naso e del suo ego smisurato. Ma la caratterizzazione eccessiva, grottesca e sopra le righe che ce ne offre Brad Pitt (anche produttore del film, oltre che protagonista), non riesce laddove invece aveva colpito nel segno il George W. Bush di James Brolin (in W. di Oliver Stone): far empatizzare noi spettatori con le vicende di un personaggio sgradevole, di cui non condividiamo quasi nulla, ma di cui percepiamo le debolezze. Partecipiamo della sorte di George W. e ridiamo con gusto di lui, ma non riusciamo a far lo stesso del generale McMahon. È proprio la satira il punto debole di War Machine, un film che sembra sempre fuori focus e indeciso sulla strada da prendere, un po’ commedia, un po’ grottesco, un po’ film di guerra, un po’ drammatico. Non aiuta la voce narrante (molto presente), a cui fino a metà film non riusciamo ad attribuire un volto (e che quindi ha un effetto straniante) e non aiuta lo squilibrio delle interpretazioni degli attori, alcune molto caricaturali come Pitt (è il caso del Ben Kinsgley/Karzai) alcune più naturalistiche (l’ottima Meg Tilly che interpreta la moglie di McMahon). Resta un film con spunti molto interessanti (il cast è comunque di alto livello, e il cammeo di Tilda Swinton è da non perdere) che ci propone uno sguardo inedito sul conflitto afghano e con un grande pregio, quello di lasciare nello spettatore la sensazione definitiva della totale assurdità di quella guerra (di tutte le guerre?), regolata da dinamiche senza senso e, in ultima analisi, senza scopo.
Maria Elena Vagni