Cos’è il Wajib? In arabo significa “dovere”. Come quello che tocca, a Nazareth in Palestina, a un padre, Abu Shadi, quando la figlia Amal sta per sposarsi: tra i vari preparativi, la tradizione locale vuole che gli inviti ufficiali, le partecipazioni, si debbano consegnare tutte una per una, di persona. Lo vuole la tradizione e non ci può sottrarre, per una forma di rispetto verso gli invitati, anche se questo richiede centinaia di visite (e sperando, in alcuni casi, che chi è invitato non venga…). Accompagna il genitore Shadi, l’altro figlio tornato per le nozze da Roma dove lavora come architetto. E lui, scappato da una realtà non libera e anzi soffocante, si trova ad accettare cose che non capisce più. Soprattutto il padre, che dal canto suo non accetta quasi nulla della vita del figlio.

Il terzo film della regista palestinese Annemarie Jacir è un piccolo gioiello di semplicità, misura narrativa e profondità umana. Tra il 65enne Abu Shadi, insegnante di scuola appesantito dagli anni e dai dolori personali (la moglie se ne andò negli Usa con un altro uomo, lasciandolo a tirar su i due figli ancora piccoli) che sogna di diventare preside, e il figlio trentenne ormai occidentalizzato sembra non esserci più nulla in comune. Il figlio, in particolare, imputa al padre l’eccessiva arrendevolezza con i prepotenti; come per l’invito a un collega dal passato poco chiaro, considerato dal figlio una spia dei servizi segreti israeliani. Ma anche il padre contesta al giovane la lontananza, quasi un tradimento non tanto della famiglia quanto della patria, comodamente criticata da lontano con schemi ideologici che non tengono conto della situazione concreta di chi ci vive; nonché il rapporto con una ragazza figlia di un capo dell’odiata OLP (considerata corrotta e lontana dalle esigenze del popolo). Tanto da raccontare in giro agli invitati varie bugie su di lui: che sta per tornare per sempre, che sia un medico, che sia in cerca di moglie, quasi a vergognarsi di come Shadi sia veramente. Nel giro di una intensa giornata il loro rapporto sarà forzatamente messo alla prova: riusciranno padre e figlio a parlarsi con libertà, a confrontarsi davvero, a rispettare le diversità reciproche?

La regista pedina i due protagonisti, seguendoli nei vari spostamenti in auto e nelle visite a parenti, amici, conoscenti, colleghi. Momenti in cui i due personaggi, poco a poco, si aprono, si parlano, rievocano episodi della dolorosa vita di famiglia (quella madre che incombe in tutti i discorsi, che dovrebbe arrivare da un momento all’altro oppure dover annullare all’ultimo il viaggio per il matrimonio: il suo secondo marito sta morendo) ma quasi mai si capiscono; c’è sempre una distanza, un ostacolo, un punto di vista diverso che diventa contrasto. A volte solo dialettico e “generazionale”, ma comunque tale da bloccarli sulle rispettive posizioni. In qualche caso foriero di uno scontro esplosivo. Ma c’è spazio anche per episodi tragicomici, come l’errore sui biglietti, o comunque più leggeri: come il dialogo tra il ragazzo e la cugina che parlano dell’Italia, in un modo che ci può inorgoglire ( in contrasto anche con lo squallore diffuso che il giovane architetto occidentalizzato osserva con raccapriccio…), o certi momenti teneri tra padre e figlio in cui i ricordi del passato felice li sciolgono per un istante.

Tipico esempio di film da festival (ma dei più validi e interessanti: il film ha vinto numerosi premi in rassegne internazionali) ovvero pensato anche per un pubblico internazionale e quindi comprensibile nonostante le differenze culturali, Wajib ci porta in un mondo non lontano ma distante, aprendoci alla comprensione di realtà che conosciamo poco. E ci mette di fronte a una storia di famiglia che echeggia le sofferenze del popolo palestinese, le divisioni di una nazione e della città di Nazareth, abitata da una maggioranza araba e da una corposa minoranza cristiana mescolate senza problemi (ma entrambi cittadini di serie B, con meno diritti rispetto a quelli di origine ebraica, temuti e poco amati: si veda l’investimento del cane che li terrorizza). Ma anche riproponendo l’eterno confronto padre-figlio, che il finale lascia aperto. Un confronto reso al meglio dai due straordinari protagonisti Mohammad Bakri e Saleh Bakri (che avevamo apprezzato anni fa nella commedia israeliana La banda e poi come protagonista di un film italiano, Salvo di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza), che sono davvero padre e figlio anche nella realtà. E perfino doppiati, nella versione italiana, da un padre e da un figlio: Andrea e Marco Mete.

Antonio Autieri