La bellezza di fronte al cosmo e al pianeta e l’inquietudine delle domande più radicali dell’uomo. Lo studio scientifico per cercare di sondare le origine della vita e lo sguardo poetico e religioso di un autore che ha approfondito e “purificato” sempre più il suo sguardo attraverso il suo modo di fare cinema. In Voyage of Time Terrence Malick – che prima di iniziare la produzione di questo film si è immerso in studi astronomici, biologici e filosofici, raccogliendo appunti e parlando con professori, ricercatori e innovatori in diversi campi, dalla fisica all’antropologia – invita lo spettatore a sondare in profondità 14 miliardi di anni tra passato, presente e futuro, ripercorrendo le origine dell’universo e della Terra, dalla nascita delle stelle alla comparsa dell’uomo sul nostro pianeta. Nell’arco di diversi anni, Malick con questo lavoro ha usato tutte le potenzialità espressive del mezzo cinematografico, effetti digitali all’avanguardia compresi (microfotografia, immagini generate da supercomputer) per parlare dell’uomo e di tutto ciò che lo precede, fino al rapporto con Dio. E lasciando spazio a domande sul suo posto nel mondo e nella storia.

Voyage of Time è sicuramente un film molto sui generis, anche all’interno di una filmografia raffinata come quella di Terrence Malick. Questo documentario, prodotto da Brad Pitt, che si vide in concorso alla Mostra di Venezia 2016 non era finora mai uscito nei cinema italiani (se non in proiezioni evento). Si tratta di un’opera che può spiazzare se non si sa a cosa si va incontro, oppure lasciare spazio alla commozione per la bellezza che esplode, nelle immagini della Creazione e della nascita del cosmo: è una sorta di spin-off del capolavoro del regista del 2011, The Tree of Life, quanto meno di quella parte misteriosa e affascinante che rievocava la creazione e la storia del Creato e delle specie viventi fino alla nascita dell’uomo. Un film che sembrava impossibile portare nelle sale cinematografiche – anche se a Venezia, all’epoca, la stampa lo applaudì molto – e sicuramente per un pubblico molto ristretto: c’è chi, anche stavolta, si irriterà per le scene con i dinosauri, ma tutto ha un senso (qui si vede anche un asteroide, probabilmente quello che ne causò l’estinzione: provvidenziale, per un mondo che molto tempo dopo avrebbe dovuto ospitare la razza umana…). Senza contare che solo al Cinema si può apprezzare davvero un film di tale potenza di immagini, accompagnate da musiche emozionanti.

Un’esperienza visivamente stupenda, con echi religiosi e biblici forti (anche di un salmo: «Può una madre abbandonare sua figlia?»), in cui la voce narrante di Cate Blanchett – in mezzo a molti silenzi – si rivolge a una madre che può essere anche Madre natura o una realtà umana che apre a un Altro più grande. Magari qualche dubbio lo lasciano certi inserti di realtà di popolo, tra miseria e disagio, ed è certo una visione molto impegnativa, con poche frasi e molti momenti silenziosi. Ma commuovono la visione della Bellezza e di un corso della vicenda cosmica e umana che passa dalla violenza e dal dolore all’amore e alla Grazia.

Antonio Autieri

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