Paul Thomas Anderson è un regista californiano, e di quello Stato, a vedere i suoi film, conosce bene luci e ombre, gioie e dolori; i suoi film sono riempiti tanto dall’intensità del sole che dalle oscurità che albergano nel profondo dell’animo umano. Corpi e anime che non mancano mai, si tratti di descrivere l’abisso del cinema porno in Boogie Nights, il fallimento e la coscienza di Magnolia, l’amore delicato e incontenibile di Ubriaco d’amore, il sangue de Il petroliere o il plagio di menti spezzate di The Master. Certamente influenzato dall’opera di Robert Altman (di cui è stato anche assistente e collaboratore), Anderson ha una modalità narrativa corale e ricca di sfumature, con un enorme riguardo per i personaggi e una capacità evocativa che lo rende uno dei più originali autori di Hollywood.

Vizio di forma è tratto da un romanzo di Thomas Pynchon, uno degli autori più noti della letteratura contemporanea americana; un personaggio famoso e oscuro, le cui uniche foto risalgono agli anni 50, ma i cui romanzi continuano a fotografare con acume e spietatezza la società degli Stati Uniti. Protagonista della storia è Doc Sportello, detective privato che nel 1970 passa il suo tempo tra la marijuana e le anfetamine quando non ozia nella spiaggia sotto casa. Perfetto rappresentante della “controcultura” degli anni 60, Doc è trasandato, gira in sandali, pantaloni a righe e una frusta camicia militare, ma è onesto e non si tira indietro se un amico ha bisogno (e in questo ritroviamo molto anche del Lebowski dei Coen). A cercare i servigi di Doc è Shasta, sua ex fiamma che ora sta con un ricco immobiliarista sposato, che la ragazza teme possa essere incastrato dalla moglie e dall’amante di lei. Con richiami che vanno da Il grande sonno a Il lungo addio, la storia si dipana aggrovigliandosi sempre di più, con Doc Sportello che deve fare i conti con il tenente Bigfoot Bjornsen (Josh Brolin), che sembra averlo preso di mira addebitandogli anche un omicidio. L’FBI, la famiglia criminale di James Manson, le droghe, la prostituzione, ma anche scene slapstick a base di legnate o porte buttate giù a calci: l’investigazione di Doc diventa sempre più bizzarra e incomprensibile, e il confine tra realtà e illusione viene attraversato più di una volta, con narrazioni racchiuse una nell’altra come scatole cinesi, nuovi personaggi e situazioni. Le atmosfere, gli ammiccamenti, la chimica che si crea tra gli attori sono la vera cifra di un film che dipinge brutalmente l’era di una libertà ostentata e fragile, dai risvolti criminali e nella quale tutti sembrano muoversi in una ricerca di se stessi che si sperde in mille rivoli, a volte inconsapevole, a volte drammatica (come evidenzia bene la scena con Doc e Shasta sotto la pioggia, col raggiungimento di una ricercata ed effimera pacificazione).

Il risultato è un film misterioso ma affascinante, dove brillano le interpretazioni dei tanti attori; un viaggio in un’epoca particolare, un sogno che spesso si trasforma in incubo, una realtà che sembra offrire soluzioni immediate, ma che sfuggono tra le mani come la sabbia di Gordita Beach.

Beppe Musicco