«Il bene dei figli sono le mamme». Madri che aspettano, madri che rischiano e madri che si ritrovano in attesa di un figlio ma con un futuro che non sarà quello di una madre. Lì sul fiume Volturno (siamo in provincia di Caserta), dove i pesci muoiono e la spazzatura ha preso il posto della terra, si muovono i protagonisti de Il vizio della speranza, presentato alla Festa del Cinema di Roma (dove ha vinto il premio del pubblico), quarto film diretto da Edoardo De Angelis (Mozzarella Stories, Perez, Indivisibili).

Maria (interpretata dalla bravissima Pina Turco) lavora per zi’ Mari, una cinica maîtresse (Marina Confalone, anche lei perfetta nella parte) con il vizio dell’eroina. Maria, inseparabile dal suo cane, conduce prostitute verso il destino del parto e della successiva vendita del figlio. Non sembra aver paura, è risoluta ma non violenta, è tenera ma non melensa. Maria manovra e controlla tutto, ma non riesce però a calcolare qualcosa di nuovo nella sua vita. Il suo grembo cresce di giorno in giorno. Lo nota poco alla volta proprio lei che non ama guardarsi né essere guardata. Che si nasconde in tute da lavoro, scarponi che sopportano il fango e in un maglione fatto di quadrati da uncinetto. E se dovesse cambiare tutto nella sua vita? E se la speranza (e la conseguente libertà) potesse essere l’unica via per cambiare se stessi e il proprio mondo?

Il vizio della speranza è un film in cammino, composto di desideri che diventano azioni, di relazioni che perdono la finzione e anche tutto quello che è sopportabile sopravvivenza. Ma non solo. C’è qualcosa che fa pensare anche a una dimensione alta, Altra. Alla religione, che diventa superstizione con i muri pieni di quadri d’autore o popolari che raffigurano la Madonna nella casa di zi’ Mari, o alla fede che diventa preghiera. Una fede nascosta a se stessi che diventa imprevedibile preghiera, richiesta, rifugio: ovvero, sincera e vissuta fino in fondo.

La regia di De Angelis, che ha scritto la sceneggiatura insieme a Umberto Contarello, porta lo spettatore dentro questa storia al femminile, dove l’unico uomo presente, l’esiliato Carlo Pingue (Massimiliano Rossi), è «l’unico essere umano» che Maria incontra. L’assenza degli uomini è pesante ed è forse una sconfitta o un giudizio, ma in questo film (perfetto tranne che nella parte finale, forse troppo didascalica) tutto diventa necessario. E anche le musiche di Enzo Avitabile modulano gli stati d’animo e accompagnano un film che dimostra ancora una volta che sono ancora tante le storie da raccontare, i personaggi da incontrare, e che la realtà non è così monodimensionale come tanti altri film vorrebbero, con il consenso a volte del pubblico, (di)mostrare.

Emanuela Genovese