Ida Dalser, trentina di buona famiglia, conosce il giovane Benito Mussolini quando è ancora socialista e sindacalista in polemica con la religione e i padroni; lo ritrova direttore dell’ Avanti! quando il futuro Duce cambia campo abbracciando l’interventismo e fondando Il Popolo d’Italia grazie al denaro di Ida che intanto aspetta un figlio da lui. Ma Mussolini ha già una donna, Rachele Guidi, da cui ha avuto una figlia e man mano che la sua carriera politica procede, il futuro Duce prende le distanze da Ida che rivendicherà invano il suo amore e i suoi diritti per poi finire rinchiusa in manicomio, separata per sempre da suo figlio.

Unico film italiano in concorso a Cannes 2009, il film di Bellocchio recupera un episodio dimenticato della biografia del Duce, quello del suo legame con Ida Dalser, una donna passionale, ma fragile che con Mussolini ebbe una stagione di passione e condivisione di ideali (un versante che a dire il vero il film esplora poco più interessato, evidentemente, ad esplorare l’intensa passione sessuale dei due). Per costruire la sua vicenda di amour fou ostacolato da egoismi personali e beghe politico-clericali, Bellocchio condisce la prima mezzora di film con ardenti scene di sesso tra una volonterosa Giovanna Mezzogiorno e un Filippo Timi che, fin troppo compreso nel ruolo, anche nel momento dell’amplesso non rinuncia alla posa plastica da vero Mussolini. Passato il momento dell’incanto, che in un avanti e indietro di ricordi, impressioni e avvenimenti reali, dovrebbe introdurci a un legame vissuto, almeno da parte della tenace (ma fragile) Ida con assoluta sincerità e devozione, comincia il calvario delle minacce e della reclusione.Una lunghissima e allucinante persecuzione che il regista alterna (a suo dire, per scelta stilistica nata sulla scorta di necessità produttive) con il resoconto via cinegiornali dell’evoluzione del regime, dove Mussolini ha perso ormai il volto familiare del suo interprete per diventare solo quello del repertorio o delle statue, salvo poi tornare in quello del figlio Benito Albino (interpretato sempre da Timi, che lo trasforma in una tragica caricatura del padre) pure lui destinato a morire in manicomio.

Il senso dell’operazione di recupero storico, che sulla lunga distanza risulta estenuante e di fatto meno coinvolgente di quanto avrebbe potuto, non è chiaro. Le contraddizioni di Mussolini (prima ardente socialista contrario alla guerra, poi interventista e infine Duce compiaciuto dal delirio delle folle in piazza Venezia) sono note. Che non si sia fatto remore a “cancellare” un errore di percorso come la Dalser e suo figlio a colpi di manicomio e falsificazione di documenti non aggiunge molto di più al ritratto del personaggio, tanto più che l’interpretazione forse anche troppo intensa di Timi non riesce (o forse non vuole) a sfondare l’opacità di un carattere sopra le righe. Vista la precedente filmografia del regista (L’ora di religione e Il regista di matrimoni per ultimi), non ci vuol molto a sospettare che la mira di tutto questo poco efficace dispiegamento di forze, siano (nonostante i possibili parallelismi contemporanei) – ancora più del regime e di suoi eventuali nostalgici epigoni – Chiesa, preti e suore, colpevoli di aver stretto i Patti Lateranensi con il tiranno e di aver accettato di fare da carcerieri alla Dalser, a cui una religiosa giovane invidia le notti di passione con il Duce e la vecchia superiora raccomanda (con un effetto volutamente sarcastico) di superare il suo dolore pensando alle sofferenze della Madonna. Mentre naturalmente (anche se il regista non nasconde, ma anzi amplifica, grazie all’interpretazione della Mezzogiorno, l’ossessione di Ida per Mussolini) nell’ottica di Bellocchio il dolore innocente di lei grida vendetta proprio di fronte all’ipocrisia del Duce e soprattutto dei tanti altri che non esitano a sacrificare una donna e suo figlio per un Mito di dubbio valore.

Luisa Cotta Ramosino