C’è una frase emblematica nel film, pronunciata con disprezzo da Adolf Hitler. Le parole non saranno le stesse, ma il senso è quello: “Di mediterranei come Mussolini o Franco non ci si può fidare, a differenza dei francesi”. L’elogio è per aver ottemperato alla richiesta nazista di mandare 50mila ebrei francesi e apolidi verso i campi di sterminio. In un giorno, il 17 luglio del 1942, e senza bisogno dei tedeschi, i collaborazionisti del Maresciallo Pétain ne ammassarono 25mila (tra cui 5000 bambini) nel Velodromo coperto di Parigi, in condizioni disumane, per poi deportarli in campi di transito nel sud della Francia e alla fine ad Auschwitz e Dachau. Alla fine della guerra ne tornarono 25, solo adulti.
È un episodio sul quale per molto tempo la storiografia francese ha preferito glissare (molti dei responsabili non vennero nemmeno giudicati al termine della guerra) e per il quale il presidente Jacques Chirac porse pubblicamente scuse a nome della nazione nel 1995. La regista Rose Bosch lo ripropone con rigore e passione, in un film visto con gli occhi innocenti dei bambini di due famiglie parigine, i Weismann e gli Zygler, che per la prima volta sono costretti a sentirsi differenti dai propri coetanei in quanto ebrei, i cui spazi per giocare, andare a scuola, vivere insomma, si riducono di giorno in giorno. Una storia che, basandosi sui ricordi dei sopravvissuti, mostra il meglio e il peggio dell’animo umano di quei tempi: grassi bottegai che esultano per la “pulizia”, “volontari” ansiosi di sfogare istinti sadici, agenti avidi e corrotti; ma anche vicini di casa che cercano di salvare i figli altrui dichiarandoli propri, parroci che forniscono nuove identità; pompieri che, infischiandosene degli ordini, cercano di alleviare le sofferenze di questa umanità imprigionata e inconsapevole. E, soprattutto, genitori che lottano per far soffrire il meno possibile i propri figli, cercando di non cedere alla disperazione.
Interpretato con vigore da Mélanie Laurent (Il concerto) e Jean Reno, nei panni di un’infermiera volontaria e un medico ebreo prigioniero, oltre a un gruppo di bambini appassionati, Vento di primavera (dal nome dell’operazione, ma forse sarebbe stato più adatto l’originale La rafle, “la retata” in lingua originale) è un film nel quale i fatti narrati, anche i più atroci, sono accaduti veramente, e ancora ci interrogano.
Beppe Musicco