A poche ore dalla consegna dei premi, recuperiamo un (bel) titolo del concorso. E alcuni titoli fuori concorso, tra cui un documentario che ci ha rubato il cuore…
Con Sweet Country il concorso di Venezia presenta il suo unico western. Genere difficile da realizzare senza cadere in commenti nostalgici, il film di Warwick Thornton è tratto da eventi realmente accaduti, che hanno ispirato il romanzo omonimo dello scrittore David Tranter. Solo che al centro di Sweet Country non c’è un aborigeno ma Sam, un nero, non molto remissivo, che reagisce alla violenza di un rude terriero bianco, con un colpo di pistola. Sceriffo (un bravo Bryan Brown), prete, terrieri si mettono sulle sue tracce. La fuga sarà davvero l’unica salvezza? Perfetto e senza sbavature, con una violenza da western, Sweet Country riesce a raccontare il razzismo del Novecento in Australia, puntando alle relazioni come lente per comprendere la difficoltà dei neri di essere trattati come esseri umani. E senza rivelare il finale (tra l’altro il montaggio su diversi piani temporali permette allo spettatore di digerire la violenza), commuove la scelta di trovare nella costruzione di una chiesa una via possibile per un’umanità migliore. (eg)
Gino (Matthias Schoenaerts) e Bibi (Adèle Exarchopoulos) si conoscono durante una gara automobilistica con Bibi al volante di una delle auto da corsa, e tra i due è amore a prima vista. Inizia così una complicata relazione, logorata dalle continue bugie di Gino, che nasconde un segreto e sembra avere una doppia vita. Diviso in tre capitoli – Gino, Bibi e Pas des fleurs (niente fiori) – Le fidèle di Michaël R. Roskam, autore del buon Chi è senza colpa, è un film dalla trama pasticciata con evidenti buchi di sceneggiatura ed esagerazioni che mettono a dura prova lo spettatore. Dopo un avvio da film gangster dedicato tutto a Gino, alla sua relazione con Bibi e alla sua contradditoria personalità che ce lo presenta come uomo fedele dal carattere animalesco, in relazione alla personalità di quei cani dai quali è tanto spaventato, il film cambia registro e genere e diviene una drammatica love story con un destino che sembra accanirsi su questi due innamorati. Inizialmente circondati da amici e familiari, Gino e Bibi si ritrovano soli nel momento di maggior bisogno, senza che la narrazione chiarisca le motivazioni. Roskam si perde nei diversi sottogeneri e dirige un film che dopo una partenza avvincente finisce in testa-coda alla prima svolta narrativa. (mn)
Tra i film Fuori Concorso a Venezia è stato presentato anche Cuba and The Cameraman, documentario prodotto da Netflix e realizzato dal regista e reporter Jon Alpert. Per circa quarant’anni il giornalista torna negli stessi luoghi, oscilla tra le aride campagne abbandonate e i luoghi cittadini dimenticati, ripercorre le stesse strade, incontra le stesse persone e si interroga così sugli sviluppi di Cuba, un paese che all’inizio degli anni 70 prometteva grandi innovazioni nel campo della sanità, dell’edilizia e dell’istruzione. Relegando il suo rapporto con Fidel solo alla prima parte del documentario e all’ultima, Alpert dirige un’opera che, oltre a farsi manifesto politico sugli anni del comunismo, diviene ben presto un viaggio molto personale che sfrutta la relazione con tre diverse famiglie del posto – quella con una famiglia di contadini, tre fratelli e una sorella, che vivono a Borrego; quella con Caridad, conosciuta quando era solo una bambina con il sogno di fare l’infermiera e ritrovata anni dopo nel ruolo di mamma; e quella con Luis Amores, piccolo delinquente nei primi anni e venditore di materiali edili verso la fine del documentario – per evidenziare le contraddizioni di un luogo ambiguo e sempre in bilico tra rassegnazione e speranza. Con la telecamere sempre in spalla e con le riprese impreziosite dalla musiche del posto, Alpert fa parlare i volti e le immagini e lascia un racconto di grande interesse storico, raccontando i cambiamenti sociali, culturali e politici di uno dei luoghi più controversi del secolo scorso. (mn)
Chiudiamo il nostro diario veneziano con un altro documentario, sempre presentato fuori concorso che ci ha preso il cuore: Jim & Andy: the Great Beyond di Chris Smith (ma il titolo completo è molto più lungo… Ci vorrebbe enorme spazio per un’opera sorprendente (che speriamo possa essere visto, al cinema e altrove, dagli appassionati di cinema italiani), che parte da lontano: il backstage di Man on the Moon, il grande film di fine anni 90 diretto da Milos Forman, con Jim Carrey nei panni del comico Andy Kaufman. Più che un’interpretazione: Carrey, intervistato a tanti anni di distanza, rievoca non solo cosa significò interpretare il grande e folle artista (più che comico – definizione che detestava – un vero performer) scomparso a soli 35 anni nel 1984. Ma anche l’influenza che ebbe Kaufman su di lui fin dagli esordi tv, surreali e provocatori quasi quanto quelli di Andy. Quel film, difficilissimo da realizzare (anche per Forman), significò un’immersione totale nel personaggio da parte di Jim Carrey, che sul set si comportava come Kaufman o come il suo incredibile, aggressivo, ancor più folle alter ego Tony Clifton (chi ha visto il film capirà), con conseguenze imprevedibili su tutte le persone attorno a lui/loro. Ma il documentario, che spazia dall’infanzia di Carrey al rapporto con il padre, da altri film fondamentali per lui come Truman Show e Se mi lasci ti cancello al suo momento esistenziale attuale in cui il cinema sembra non avere (purtroppo) più spazio, parla di identità, di rapporto tra realtà e finzione, di maschere e sincerità. E di desiderio di essere apprezzati e amati. Con alcuni momenti davvero commoventi (aut)
(recensioni di Emanuela Genovese, Marianna Ninni, Antonio Autieri)