A poche ore dalla premiazione del concorso ufficiale della 76a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, chiudiamo con questa decima puntata il nostro diario giornaliero dal Lido. Cui seguiranno le considerazioni sui premi assegnati dalla giuria. Il concorso, in calando nella seconda parte rispetto ai primi formidabili giorni (cosa abbastanza frequente, come abbiamo già spiegato: i grossi “calibri” dopo Venezia si spostano al Toronto Film Festival, grande vetrina per il Nordamerica e in generale per conquistare nuovi mercati), chiude in maniera abbastanza fiacca con Waiting for the Barbarians, una coproduzione internazionale in c’è anche l’Italia (con Iervolino Entertainment). Un mite magistrato, in una roccaforte di confine, deve accogliere un ispettore di polizia che ha ricevuto l’ordine di indagare sui “barbari” che popolano il deserto circostante e che minacciano il loro impero con segreti piani di guerra. Il magistrato, restio fin da principio a definire barbari i nomadi che abitano da più tempo quelle terre senza recare grandi fastidi, deve aprire gli occhi sulle spietate azioni che l’ispettore è pronto a compiere in nome del proprio incarico. Il regista colombiano Ciro Guerra dirige un film metaforico, ambientato in uno spazio indefinito e fuori dal tempo, che ricorda per certi aspetti Il deserto dei tartari senza però raggiungerne la portata esistenziale. Interessante il tema dei rapporti di potere, che in nome di una causa cieca e magari inutile possono rimodellare un’intera visione della società. Purtroppo, un forte appiattimento dei personaggi e la lentezza del film non aiutano a dare maggiore profondità alla storia: troppo monocordi i “cattivi”, interpretati da Robert Pattinson e da un inflessibile Johnny Depp, che esibendo con orgoglio un paio di occhiali blocca ogni tentativo di comunicare con lui. Nota di merito a Mark Rylance, nei panni dell’uomo giusto che non rimane immobile davanti a una violenza barbarica, ma che è costretto a fare i conti anche con se stesso: con le sue azioni fa veramente il bene oppure contribuisce, inconsapevolmente, a rafforzare il male contro il quale sta lottando? (Roberta Breda)
Fuori concorso, invece, è passato il film di un grande regista italiano come Gabriele Salvatores, ovvero Tutto il mio folle amore che però delude abbastanza (e altrimenti il film sarebbe stato considerato per il concorso, riteniamo). Questo road movie – tratto molto liberamente da una storia vera raccontata dal romanzo Se ti abbraccio non avere paura di Fulvio Ervas – su un padre che torna dopo 16 anni dall’aver abbandonato la compagna e il figlio neonato non riesce a trasformare completamente i tre attori principali nei loro personaggi, in particolare Valeria Golino e Diego Abatantuono: rispettivamente Elena, la madre abbandonata; e Mario, l’uomo che la sposò anni dopo, diventando così padre di Vincent, ragazzo autistico con problemi così gravi da esasperare la mamma (mentre il patrigno sembra talvolta saperlo prendere con racconti e travestimenti surreali). Poi all’improvviso torna appunto il vero padre, ovvero Willi, un cantante da balera e da matrimoni noto soprattutto in Slovenia e Croazia dove viene chiamato il “Modugno della Dalmazia”. Ovviamente non viene accolto con i fiori dalla donna che fu abbandonata senza neanche un saluto. Ma Vincent, scoperto il vero padre (che per un equivoco chiama “Willipoi”), si nasconde nella sua auto e parte con lui per una tournèe che diventerà il loro primo viaggio insieme. Claudio Santamaria rende bene questo uomo immaturo, anche se pure il suo personaggio è a tratti parecchio stereotipato, con gli eccessi tipici dell’uomo immaturo e incosciente; è soprattutto la sceneggiatura a non convincere tra dialoghi a volte debolissimi («non è la vita che mi ero immaginata» dice la madre di Vincent; «ti devi accettare» risponde il marito…) ed episodi inutili o sopra le righe. E se tra padre e figlio comunque qualche momento discreto il film riesce a sfornarlo, e comunque Santamaria conferma di aver presenza scenica e voce da cantante già utilizzata in passato (per esempio come Rino Gaetano in una miniserie tv), il vero punto di forza è la prova del giovane Giulio Pranno, per la prima volta al cinema, così bravo – nel fare il “matto”, nelle esplosioni di riso e negli improvvisi mutismi, ma anche nel modo di parlare assolutamente credibile – da averci fatto dubitare che avesse qualche forma di disabilità (non sarebbe stata la prima volta). Davvero una performance notevole la sua (ci ha ricordato quella di un Di Caprio diciottenne nell’ormai lontano Buon compleanno Mr Grape): peccato che il film non sia all’altezza della sua prova. (Antonio Autieri)
Per la sezione Orizzonti segnaliamo Blanco en blanco. Cile, Terra del Fuoco, inizio ‘900. Il fotografo Pedro (Alfredo Castro molto bravo, in un ruolo non facile) viene ingaggiato come fotografo del matrimonio tra il proprietario terriero Mr Porter e la sua sposa, ancora bambina. Ma mentre Mr Porter, chiamato altrove dai suoi affari, sembra essere destinato a non tornare mai, Pedro diventa sempre più ossessionato dalla figura della sposina. Come punizione per la sua concupiscenza, viene costretto a testimoniare con i suoi scatti la colonizzazione di queste terre. Ispirato dalle fotografie che ritraggono il massacro della popolazione indigena dei Selknam, il regista Theo Court si spinge nelle gelide terre della “Fine del mondo”, per raccontare la brutale fondazione di una nazione, compiuta da un’umanità violenta e degenerata. Persino il protagonista, ambiguo nelle sue intenzioni e pronto a disporre a proprio piacimento di una ragazzina innocente, suscita un profondo distacco nello spettatore. Belle (e terribilmente macabre) le inquadrature in 4:3, che intervengono talvolta per mostrare la messa in posa, curata e lenta, dei personaggi e persino dei cadaveri davanti all’obiettivo del fotografo. Vittime inermi sono la sposina, quasi una bambola nelle mani perverse degli adulti, così come gli indigeni, specialmente le donne, usate e poi braccate come animali: sono solo loro a indossare in certi momenti un bianco vivo, che contrasta con il bianco spento e cinereo del paesaggio (“bianco su bianco”, come avverte il titolo). Una fotografia molto scura e alcune inquadrature fisse trasformano il film in un ritratto di un paesaggio arido, specchio perfetto degli uomini che lo conquistano: uno scenario sterminato, ma dove apparentemente “non c’é spazio per loro”, come spiega un cacciatore di taglie. Il ritmo molto lento, purtroppo, attutisce la portata di questa tragedia, nella quale nemmeno una fotografia aiuta a prendere coscienza del proprio male. (Roberta Breda)
Il film di chiusura, fuori concorso, è The Burnt Orange Heresy, thriller di Giuseppe Capotondi (il suo primo e precedente film, La doppia ora, passò in concorso alla Mostra esattamente dieci anni fa), con cast, sceneggiatura e produzione americani. James Figueras, giovane critico d’arte e bugiardo seriale, viene ingaggiato da un collezionista d’arte – che vive in una sontuosa villa sul lago di Como e ha i sorrisi poco rassicuranti di Mick Jagger – per intervistare l’enigmatico artista Jerome Debney, da 50 anni ritirato a vita privata. Quando scoprirà le vere intenzioni del collezionista, James farà di tutto pur di non veder crollare il proprio castello di bugie e non perdere la propria occasione di celebrità. Un mondo tutto da esplorare quello della critica e del mercato d’arte, inaugurato da La grande scommessa e da alcune nuove produzioni americane, sempre sul genere neo-noir; un ambito affascinante e insidioso, che consente una riflessione su cosa sia la verità, su come una certa critica rischi di plasmarla a proprio piacimento, fino a seppellire il valore di un’opera sotto teorie e interpretazioni più o meno veritiere. Interessante l’idea che questa essenza sia da scovare in una tensione a cercar l’arte pura piuttosto che nelle tele o nei titoli enigmatici gettati come un osso ai critici. Purtroppo, però, è principalmente l’intreccio a destare attenzione in The Burnt Orange Heresy, portando peraltro a uno scioglimento non particolarmente brillante. Complici forse i discorsi troppo retorici dei personaggi (che tendono a parlare tutti alla stessa maniera) e le loro scelte poco credibili. Peccato per le prove attoriali di Donald Sutherland, artista maledetto e magnetico, e di Elizabeth Debicki, nei panni dell’amante del critico: due ruoli che avrebbero potuto entrambi dare un maggiore apporto alla storia. Nella parabola discendente del protagonista, che arriva a non distinguere più tra bugie e verità, molti buoni spunti rischiano di perdersi lungo la strada. (Roberta Breda)