Quattro storie. L’undicenne cubano Albert è un piccolo talento della boxe ma sua madre gli ha posto la condizione di andare bene a scuola per riprendere gli allenamenti e meritarsi di entrare nella prestigiosa Sport-Study Academy dell’Avana. La coetanea mongola Deegii, sostenuta dalla famiglia, si produce quotidianamente in durissimi esercizi per diventare contorsionista circense. Il diciannovenne ugandese Tom studia presso l’Autorità per la salvaguardia della fauna nel Parco Nazionale Queen Elizabeth, di cui intende diventare ranger. La quindicenne indiana Nidhi ha il bernoccolo della matematica e coltiva il sogno di studiare al Politecnico per diventare ingegnere. Ce la faranno? Chi la dura la vince…
Nel precedente Vado a scuola il documentarista francese Pascal Plisson aveva raccontato pericoli e avventure che quattro bambini, abitanti di altrettanti poverissimi angoli della terra, dovevano affrontare semplicemente per raggiungere i banchi della loro classe. Il film ottenne un rispettabile successo di pubblico (facendo in patria meglio di kolossal come Oblivion e Lincoln) e il premio César (l’equivalente transalpino dei nostri David di Donatello) per il miglior documentario.
Nelle intenzioni del regista, non c’era quella di girare un seguito (è dei distributori italiani l’idea di aggiungere nel titolo Vado a scuola, per collegarlo con il precedente) ma di compiere comunque una seconda ricognizione nei sogni di bambini e adolescenti dei quattro angoli della terra alle prese con sogni difficili da realizzare. I temi della storia sono analoghi: l’impegno e l’abnegazione nello studio da parte di ragazzi decisi a far fiorire una loro passione, vincendo condizioni di vita apparentemente scoraggianti. Ad appoggiare i giovani protagonisti ci sono adulti che li motivano, li incoraggiano, li correggono, ne accolgono gli sbagli e – dove necessario – li aiutano ad accettare e giudicare con serenità le sconfitte.
Anche stavolta l’ispirazione per Plisson è nata da un episodio accadutogli per caso: «Sei anni fa – racconta il regista – ho incontrato un bambino di dieci anni in un treno in Russia. Veniva da un piccolo villaggio della Siberia ed era seduto vicino a me. Mi ricordo che indossava un cappello chapka rovinato e aveva un violino sulle ginocchia. Leggeva uno spartito. Gli ho chiesto cosa stesse facendo lì da solo. In realtà i suoi genitori e il suo villaggio avevano fatto una colletta per permettergli di partecipare a un’audizione in una grande scuola di musica a San Pietroburgo. Ho trovato questa cosa incredibile. È riuscito a convincere la giuria e la sua vita si è trasformata. Ha ottenuto una borsa di studio e ha reso fiero il suo villaggio. Da quest’esperienza mi è venuta l’idea di realizzare un film sui bambini che lottano per realizzare i propri sogni”.
Narrativamente è un po’ debole – rispetto agli altri tre – la vicenda della ragazza indiana, che non può contare né su uno scenario spettacolare (come avviene per l’episodio ambientato nella sontuosa natura ugandese), né sull’attrattiva di discipline già di per sé belle da guardare, come la boxe e le attività circensi (in cui sono coinvolti il ragazzino cubano e la bambina mongola): siamo felici per la giovane Nadhi che riesca a sgominare decine di altri coetanei vincendo il programma “Super 30” (che permette a ragazzi svantaggiati ma meritevoli di accedere a scuole prestigiose) ma sarebbe stato bello conoscere un po’ più da vicino e da dentro la protagonista, che supponiamo abbia dei sentimenti, delle paure. Per il resto, l’amante del genere documentario rimarrà stupito dalla fotografia patinata e dalla pulizia dell’immagine, che depotenziano un po’ la presa delle storie dal punto di vista del realismo (e quindi del coinvolgimento).
Eppure – forse anche grazie a questi che consideriamo difetti – il film si presta a essere utilizzato in classe come strumento didattico (Vado a scuola, infatti, è amatissimo e usato da molte maestre elementari, non solo in Francia ma anche da noi). In questi termini, Il grande giorno è un film utile da mostrare ai ragazzi, non tanto per convincerli a mettersi di buzzo buono a studiare (un uso moralistico di questi prodotti solitamente sortisce l’effetto opposto) quanto per educarli a guardare culture diverse e a scoprire coetanei che abitano in posti lontanissimi, e pure sono animati dallo stesso anelito che orienta le loro scelte e il loro cammino. Un percorso – il loro – di crescita ed emancipazione sociale in cui, in tempi di omologazione obbligatoria e globalizzazione sfrenata, fa piacere veder emergere la specificità di ogni diverso Paese, come una risorsa da preservare e di cui essere giustamente orgogliosi.
Raffaele Chiarulli