Sawyer Valentini si è appena trasferita in una nuova città, ha un nuovo lavoro, mangia da sola, ogni tanto chiama la madre, prova a fare amicizia con qualche collega, frequenta uomini conosciuti su siti di appuntamenti. Qualcosa del passato però la perseguita, è stata vittima di stalking e per questo ha cambiato città, ma quell’episodio continua a tormentarla, allora si rivolge ad una specialista del settore, che però la fa ricoverare in una clinica psichiatrica. Rinchiusa contro la propria volontà, Sawyer incontra in questa clinica personaggi strani, come una ragazza psicopatica che inizia ad odiarla e farle scherzi terribili oppure un uomo apparentemente sano ma con qualcosa da nascondere. Il vero problema è però quando scopre che in quella clinica lavora come inserviente proprio l’uomo che la perseguitava…
A poche settimane di distanza dall’apprezzato La truffa dei Logan esce in Italia il nuovo lavoro di Steven Soderbergh: Unsane, presentato al Festival di Berlino 2018 (dove è stato accolto calorosamente dalla critica online e con freddezza dalla stampa), è un esperimento decisamente particolare, un film che il regista ha realizzato con un budget limitato girando in una settimana con vari iPhone (su cui però sono state montate ottiche da cinema). Un film girato con il cellulare non è che sia la novità più assoluta, ci sono gli illustri precedenti del documentario premio Oscar Sugar Man e di Tangerine (diretto da quel Sean Baker che diventerà poi famoso con Un sogno chiamato Florida). La particolarità di Unsane è però quella di essere il primo film girato in questo modo per una precisa scelta stilistica e non per restrizioni di budget. In questo senso la scelta di Soderbergh si rivela coerente con quell’ossessione per la visione e il binomio sesso/video che è una costante del suo cinema dall’esordio di Sesso, bugie e videotape. Negli anni 2000, inoltre, Soderbergh ha fatto proprio un lavoro di ricerca di un’estetica digitale, di un immagine sintetica (è stato uno dei primi registi hollywoodiani a realizzare film in digitale quando questa tecnologia, ora di norma, era vista con diffidenza). Ora, con Unsane, l’immagine diventa quasi oltre il digitale cinematografico. La risoluzione limitata, la piattezza visiva e il formato particolare (1,56:1 che riduce quasi a quadrato il 16:9 del monitor del telefono) creano nello spettatore una sensazione che è al contempo di verità e di voyeurismo; e ricorda per certi versi l’estetica del dogma 95 (il gruppo fondato negli anni 90 dai registi danesi Lars von Trier e Thomas Vinterberg) aggiornata ai nostri tempi.
Il film risulta quindi profondamente inquietante pur senza far mai realmente paura e consente allo spettatore una profonda identificazione con la protagonista e le sue paure, e più in generale con il tema dell’opera: non siamo più capaci di un contatto umano reale, tra noi e l’altro c’è sempre di mezzo uno schermo, l’amore diventa ossessivo e i rapporti di amicizia impossibili. Ottimo volto per queste paure e Claire Foy, star della serie Netflix The Crown, protagonista assoluta e incarnazione della paura e della solitudine del mondo di adesso. Come già aveva fatto in altri film (Effetti collaterali o la serie Mosaic), Soderbergh riesce a cogliere e raccontare con grande efficacia l’incredibile solitudine dell’uomo contemporaneo. Un film sociologico e teorico, che riflette sul mezzo per riflettere la società. Peccato che ogni tanto qualcosa si inceppi a causa di una sceneggiatura (firmata da James Greer e Jonathan Bernstein, che vantano come fiore all’occhiello del curriculum Operazione Spy Sitter …) che si avvita nei troppi finali e che non sempre è all’altezza dell’intelligenza della regia.
Curiosità finale: come sempre con Soderbergh c’è da aspettarsi qualche cammeo. In questo film è la volta di Matt Damon.

Riccardo Copreni