Film alla Avati, nel bene e nel male. Tono discreto, stile dimesso. Contenuto controcorrente: una storia d'amore d'altri tempi con al centro un amore gratuito e sconfinato che nella prova tremenda di una malattia terribile trova, misteriosamente, compimento. È questo, senz'altro, il valore aggiunto di un film che come troppi recenti film del regista bolognese, appare formalmente un po' “tirato via”, impreciso negli stacchi di montaggio, addirittura incoerente nella risoluzione di alcuni nodi dell'intreccio. Meglio, certamente del precedente Il figlio più piccolo, ma ancora lontano dalla compattezza di grandi film dell'Avati “maggiore”, quello degli esordi horror e quello delle grandi commedie amare degli anni '80. Qualcuno sostiene che è l'eccessiva prolificità a essere il difetto maggiore del regista di Regalo di Natale; altri sono convinti che i suoi film siano un po' sempre gli stessi. Non è detto, come nel caso di Una sconfinata giovinezza, che questo sia un male. Perché è vero che Avati racconta, ormai da decenni, la stessa storia: una vicenda di identità e di affetti perduti nel tempo. E la storia di Una sconfinata giovinezza non è così distante da Il figlio più piccolo, Gli amici del bar Margherita ma anche Il cuore altrove o Il papà di Giovanna, solo per citare i più recenti. E anche lo stile medio, ormai ben riconoscibile, un'alternanza di registri comico e drammatico, vero marchio di fabbrica del regista di Magnificat, si ritrova anche in questo film, interpretato in punta di piedi da due ottimi Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri, quest'ultima probabilmente nel ruolo più significativo della carriera. E a ben vedere, anche il tema forte del film – la perdita di sé stesso a causa di una malattia dell'identità spezzata, l'Alzheimer – è totalmente avatiano. Insomma, è vero che Avati tende a raccontare sempre la stessa storia: ma in questo caso almeno un paio di sequenze appaiono ricche tematicamente oltre che davvero commoventi. Quella in cui il docente di inglese mostra tutto il limite e al tempo stesso la fedeltà eroica di fronte alla moglie malata: una scena decisamente controcorrente in tempi in cui il cinema che racconta la malattia preferisce mostrare il dolore spettacolarizzandolo o riducendolo a strumento ideologico. E il personaggio della Neri, discreta e fedele compagna dalla bellezza sfiorita dal tempo e dal dolore, eroica anche lei nell'affronto di un rapporto segnato irrimediabilmente da una ferita. Peccato che il film non sia sempre all'altezza di questo personaggio e di quella scena. E non tanto per Bentivoglio, sicuramente più in parte rispetto ai comprimari, come il veterano Lino Capolicchio, meno efficaci di altre volte, ma per errori formali vistosi, oltre che per alcune scelte deboli di sceneggiatura e di regia che compromettono l’ultima parte del film. Inefficace sia a livello emozionale sia a livello visivo ci pare il flash-back che rende conto del passato del protagonista, così come troppo inflazionata e “pesante” la voce fuori campo della Neri a raccontare la storia. ,Infine, un'ultima nota del tutto personale. Il film è veramente triste. Il che non è un giudizio sul finale (anche poetico e toccante), che ognuno potrà commentare secondo il proprio gusto personale, ma per l'atmosfera di solitudine assoluta che permea l'intero film e che circonda i personaggi. Come se di fronte al matrimonio e ai suoi problemi, di fronte alla malattia, di fronte al lavoro, di fronte a se stesso l'uomo fosse sempre, tristemente solo. Non gli giova la famiglia, sempre più evanescente nei film di Avati e nemmeno la Chiesa rappresentata, con grande mestizia, da un sacerdote fratello della Neri, che non dice una parola e tanto meno recita una preghiera. ,Simone Fortunato,