Una donna fantastica di Sebastian Lelio (ma a produrlo c’è Pablo Larrain) inizia con un mistero: quello che circonda Orlando, l’amante di Marina che muore in modo drammatico a pochi minuti dall’inizio del film. Il legame tra i due, lei cameriera con la passione del canto, a suo agio con la propria identità sessuale (mai pienamente svelata, ma che invece il titolo sottolinea forse in modo provocatorio), lui di vent’anni più vecchio ma palesemente innamorato, ha la gioiosa perfezione di tutte le cose destinate ad essere distrutte a breve.
E infatti nella notte Orlando si sente male, Marina cerca di portarlo in ospedale complicando e rendendo ancora più sospette le circostanze, fino a una morte improvvisa e devastante. E, forse per il dolore insopportabile, forse per la paura di essere incolpata di qualcosa, Marina scappa via, dando il via a una catena di sospetti che le complicheranno ancora di più la vita. Da un lato la famiglia di Orlando che, in misure e modi diversi, non ha mai accettato quella storia e che adesso prende spunto dalla mancanza di veri e propri accordi legali per riprendere tutto quello che faceva parte della vita in comune di Orlando e Marina: la macchina, l’appartamento, persino il cane. Sono questioni di soldi, certo, ma è evidente che dietro queste piccole ripicche ci sono anni di risentimento e incomprensione, che nel figlio di Orlando sfociano anche nella violenza.

Fosse solo questo il film di Lelio si ridurrebbe all’ennesima pellicola di denuncia dell’intolleranza contro i transgender. Il regista cileno invece si concentra su Marina, sulla sua graduale elaborazione del lutto, ma anche della rabbia per quella morte improvvisa e ingiusta che le semina dubbi anche sul suo rapporto con Orlando. Del resto anche lo spettatore deve credere un po’ “per fede” alla forza e alla profondità di questo legame che vediamo e capiamo troppo poco (forse anche per evitare di metterne a tema le possibili contraddizioni…) prima della sua fine. La “cancellazione” di Marina dalla vita del defunto da parte della famiglia, fino al divieto di partecipare alla sua cerimonia funebre, certo, è un affronto che la fa ribellare. Come pure i sospetti della polizia che, inizialmente con la scusa di indagare eventuali abusi su di lei, la sottopone a confronti umilianti e finisce per insinuare che possa aver avuto un ruolo nella morte dell’amante.
Ma per Marina, in definitiva, il cuore della questione è quello che le resta di un rapporto appassionato e troncato in modo subitaneo, che le ha lasciato mille domande. Orlando le voleva fare un grande regalo (noi spettatori sappiamo cosa era, un viaggio alle cascate del fiume Iguazu) ma poi se lo era forse dimenticato. E questo cosa significa? Marina potrebbe superare il disprezzo e l’odio dei famigliari di Orlando, le ingerenze della polizia, se fosse certa almeno di quell’amore. C’è qualcosa, forse, in grado di darle delle risposte nell’armadietto di un bagno turco, la cui chiave era tra gli oggetti personali di Orlando. E per Marina trovare queste risposte diventa così importante da costringersi a recuperare la sua parte maschile per poter entrare negli spogliatoi degli uomini e per andare ad aprire quella porta.
È forse in questa disperata ricerca, destinata a rimanere almeno in parte senza esito, nel lento e travagliato recupero del rispetto di se stessa, più ancora che nella rappresentazione delle relazioni familiari (al limite, talora, del caricaturale) che Lelio trova il cuore vitale della sua pellicola. Ed è proprio qui che Daniela Vega, interprete di carattere, riesce a dare alla sua Marina quell’energia indomabile che ha conquistato anche il pubblico del Festival di Berlino a cui il film è stato presentato.

Luisa Cotta Ramosino