Il sogno del titolo italiano rimanda a una realtà normale, dove il lavoro non è precario, le madri non sono single e gli uomini, fidanzati, mariti o padri, ci sono. Ma in Un sogno chiamato Florida tutto questo non c’è. Nel bel film di Sean Baker visto per la prima volta alla Quinzaine des realisateurs di Cannes 2017, il quasi vicino mondo disneyano di Orlando e i negozi rosa e viola servono da contrasto con una realtà dominata da palazzoni sovrappopolati e famiglie quasi sull’orlo della povertà. Moonee, piccola protagonista del film, ha pochi anni, 6, quelli giusti per provare a giocare senza soldi, a riempire il tempo solitario con l’amico Scooty, più pavido e meno intraprendente, e con la nuova amichetta Lancey. Loro si muovono, corrono, inventano giochi discutibili e guardano gli adulti che si affannano a provare a vivere con lavoretti in supermercati, vendita di profumi taroccati e anche altro. Come Halley, la giovane madre di Scooty, che è una donna senza filtri: perde facilmente la pazienza con chi la circonda, tranne che con la figlia, e cova spesso una rabbia, che esplode all’improvviso, con il mondo che non le dà spazio. Meno male che c’è Bobby (Willem Dafoe) il gestore calmo del condominio (dal titolo speranzoso e contraddittorio, Magic Castle), che segue i bambini, li rimprovera, protegge la zona condominiale. E quando può, prova a far ragionare la giovane madre, anche se è ripugnante nelle sue parole e azioni.
Ma il punto di vista vero del film sono loro, i bambini. La “camera” li segue, nella loro forza e energia e lo spettatore si stupisce di quanto il cinema possa imparare da loro. Nessun bieco psicologismo, né facili reazioni all’egoismo degli adulti: Baker prende da François Truffaut, specialmente da I quattrocento colpi, la sua capacità di raccontare lo sguardo autentico e puro dei bambini rispetto a quello disincantato e fragile degli adulti. La macchina da presa si mette alla loro altezza e lo spettatore guarda il mondo dal loro punto di vista, anche se a volte si stacca per il timore di ciò che potrebbe accadere. E vorrebbe mettersi dalla loro parte, entrando nella scena. Ecco forse questa è la semplice e leggera profondità del film. Lo spettatore sembra assistere impotente alla storia per poi sentirsi parte di essa e imparare dai più piccoli quanto i “grandi” si stanno perdendo della vita e degli affetti. E da qui Baker, forse ispirandosi anche al nostro cinema neorealista, avvicina il mondo dei bambini a quello dei grandi. Ci sono loro, i bambini, che vivono, guardano, osservano, e non gli importa se i genitori non sono persone risolte o responsabili. Loro sembrano farsi, commuovendoci, una semplice domanda che rivolgono a tutti noi: «Per te conto qualcosa?».
Emanuela Genovese