Texas, 1963. Butch Haynes è evaso di prigione e per coprirsi la fuga ha preso in ostaggio Phillip Perry, un bambino di sette anni. Dal Texas dove si trovano i due sono diretti in Alaska per raggiungere il padre di Butch e costruirsi una nuova vita. Tra il delinquente e il ragazzino nasce un reciproco affetto, ma la polizia li sta cercando e si avvicina sempre di più.
La storia della fuga impossibile di Butch Haynes e del suo giovane ostaggio Philip è raccontata da Clint Eastwood con il consueto rigore morale ed estetico ma anche con una rinnovata attenzione alla caratterizzazione dei personaggi. Il protagonista Butch, interpretato da un ottimo Kevin Costner, non è il personaggio “tutto d’un pezzo” tipico del cinema precedente di Eastwood. È carismatico, piace al giovane ostaggio e perfino al vecchio ranger che gli dà la caccia, ma è anche un pericoloso ricercato e un uomo attraversato da profonde ombre. La domanda “chi è Butch Haynes?” attraversa tutto il film: se lo chiede il piccolo Phillip che con lui vive il suo breve “mondo perfetto”, se lo chiede il vecchio ranger che gli dà la caccia e che per primo lo aveva catturato quando era ancora un ragazzo, ce lo chiediamo noi spettatori, indecisi se considerarlo comunque un brav’uomo o solo un pericoloso omicida. Unica a non chiederselo rimane la società americana che, a poche settimane e a poche miglia dall’omicidio Kennedy, non può permettersi troppe debolezze.
Nel film sono molti i riferimenti alla famiglia: Butch deve raggiungere il padre che forse non ha mai avuto e che vive in Alaska (metafora del luogo irraggiungibile), mentre la vera figura paterna del film, il ranger interpretato da Clint Eastwood, è sulle tracce di quello che a tutti gli effetti è un figlio prodigo (che però non riuscirà a né raggiungere nè a salvare). Nel mezzo c’è il duro giudizio su una società che non si prende cura dei suoi figli, se non nella maniera paternalistica e violenta che riconduce l’educazione ai divieti (come fa la famiglia di Philip) e la cura dell’altro ad una correzione senza amore (il carcere e il facile giustizialismo). Ma a rendere struggente un film come questo sono soprattutto gli attimi di autentica felicità in cui la possibilità di una vita libera sembra a portata di mano, dove si può credere ad “un mondo perfetto”.
Beppe Musicco