Di Augusta inizialmente non sappiamo nulla, ma subito si svela per quello che è: una donna fragile, inquieta, in crisi. La vediamo infatti piangere di notte mentre guarda la Luna velata dalle nuvole cui si sovrappone a un’immagine, di fantasia, dell’ecografia di un feto. Scopriamo subito che Augusta si trova in Brasile, da qualche parte in Amazzonia, al seguito di suor Franca. Il resto lo scopriamo man mano: che la suora è amica della madre della ragazza, donna di origini francesi bloccata e triste che vediamo in Italia, in Trentino, con l’anziana madre (e nonna di Augusta) malata; che Augusta è scappata dal nostro Paese in cerca di se stessa e di risposte alla sua inquietudine, a causa dell’abbandono da parte del marito perché non poteva più avere bambini (dopo, si immagina, una gravidanza finita male); che le sue sofferenze dipendono anche da un rapporto non facile con la madre, bloccata e triste, e dalla mancanza del padre. La giovane trentenne, minuta e nervosa, non condivide l’afflato missionario dell’anziana suora, di cui pure sembra apprezzare la generosità verso i poveri. Ma che le sembra viziata da un eccesso di voglia evangelizzatrice, che forzerebbero la libertà degli indios. Così se ne va ancora alla ricerca di qualcosa, che sembra trovare a Manaus in una comunità di gente poverissima e dignitosa che vive nelle palafitte. In una famiglia accogliente e gioiosa e nella comunità piena di bambini cenciosi, rumorosi e allegri sembra trovare serenità. Ma se c’è chi difende l’identità del luogo e del gruppo, altri puntano ad accettare le pressioni di speculatori e politici che vorrebbero mandarli via. Denaro e potere cambieranno le cose, e Augusta dovrà ancora mettersi in moto…,Un giorno devi andare è titolo programmatico, rafforzato dalla voce fuori campo della protagonista che afferma appunto che “un giorno devi andare, devi essere, devi sperare”. Un sentimento che sembra tanto sincero quanto fragile e senza fondamento (che cos’è la speranza, senza qualcosa di solido su cui possa poggiare), come fragile è la protagonista. Il terzo film di Giorgio Diritti, dopo il piccolo e fortunato caso di E il vento fa il suo giro e l’ottimo L’uomo che verrà, è opera ambiziosa e impegnativa (anche dal punto di vista produttivo: costi alti, per gli standard italiani, lunghi mesi di riprese in Brasile in difficili condizioni ambientali), che gioca sia sul lato spirituale della ricerca di sé, di valori veri contro le false illusioni dell’Occidente (il primo titolo di lavorazione era Vanità) che su quello dell’indagine concreta e fisica di un mondo poverissimo ma vitale, mostrato nelle sue contraddizioni tra gioia spontanea e precarietà totale, e dove la dignità di alcuni non nasconde le meschinità e grettezze di uomini senza scrupoli. Ma se le intenzioni sono sincere e le qualità visive a tratti notevoli, grazie anche a una fotografia che illumina sia le bellezze degli scenari naturali che il degrado dei contesti umani (la palafitta che sprofonda in acqua, mostrata attraverso rapide immagini in sequenza, impressiona non poco), stavolta il regista bolognese cresciuto alla scuola di Ermanno Olmi non governa bene la materia, che si disperde tra frasi sentenziose, scene superflue (alcuni dettagli della vita, in Italia, di mamma e nonna), lentezze eccessive e cupezze programmatiche. Per paragonarlo a un grande film che partiva da elementi analoghi ma li inseriva in una vicenda potentissima (non solo perché realmente accaduta), la ricerca esistenziale di Into the Wild era profonda, commovente e personalissima, tanto quanto quella di Un giorno devi andare; ma sceneggiatura, regia, urgenze da comunicare erano molto più essenziali ed efficaci.,Riscatta il tutto, appunto, la sincerità, certi squarci e intuizioni visive (compreso il finale sulla spiaggia, enigmatico e aperto) e la prova di una Jasmine Trinca sofferta e matura. Ma si rimane perplessi rispetto ad alcuni snodi narrativi decisivi (ci sono troppe ellissi, per esempio nel suo inserirsi fin troppo rapidamente nella comunità di Manaus; e la svolta del film è gestita in maniera troppo rapida e debole, tanto che non tocca le corde come vorrebbe) e resta un senso di inadeguatezza rispetto a una profonda ricerca di senso del vivere; mentre la fede dei tanti religiosi che vediamo apparire è lasciata in superficie (anche se mostrata con rispetto). E se l’obiettivo, dichiarato, di Diritti era di coinvolgere il pubblico parlando più alla pancia e al cuore che alla testa, bisogna dire che di emozioni se ne provano ben poche, anzi a tratti si rischia di perdere interesse alla storia. Non basta mostrare i sentimenti, o raccontare a cuore aperto, per arrivare alla sensibilità di chi guarda. Che differenza con la sobrietà, quella sì davvero olmiana (almeno dell’Olmi migliore, antico, di film come L’Albero degli zoccoli), di un capolavoro come L’uomo che verrà, che proponendo con rigore una storia dura ma con squarci lirici e apertura a una vera speranza (la nuova vita messa alla luce in quel contesto di guerra e devastazione), finiva per commuovere profondamente. Invece, Un giorno devi andare è opera più vaga e confusa, in cui la ricerca di senso si traduce involontariamente in qualcosa di astratto e intellettuale. Anche se rimane la prova interessante di un regista attento al mondo che lo circonda e alle ansie dell’uomo contemporaneo.,Antonio Autieri