Road movie con al centro il viaggio eroico di una diciassettenne, Ree (interpretata dalla giovanissima Jennifer Lawrence) alla ricerca del padre, scomparso dopo essere stato rimesso in libertà vigilata. Il mondo rappresentato dalla regista Debra Granik, anche autrice della sceneggiatura e vincitrice con questo film del Gran Premio della Giuria del Sundance Film Festival 2010 (e vincitore anche del festival di Torino), è lontanissimo da quello a cui il cinema hollywoodiano ci ha abituato. Siamo nell’America profonda, nella provincia più remota, nel Missouri, dove si vive in situazioni difficili: catapecchie più che case; terreni aridi, donne e uomini che sembrano aver smarrito non solo il lavoro, ma anche qualsiasi certezza, forse persino la propria umanità.

Sembra il mondo descritto da The Road (Hillcoat, 2009): un mondo grigio, spettrale in cui pare regnare solo la diffidenza e il sospetto verso il prossimo e in cui persino i legami di sangue sembrano perduti per sempre. In questo scenario apocalittico (pur senza una vera Apocalisse) Ree, costretta dalla legge a trovare il padre, pena la perdita della propria casa, non smarrisce la speranza. E, dopo un lungo viaggio che la porterà ad affrontare uno zio che sembrava perduto per sempre e i nemici del padre stesso, troverà il modo di riscattare se stessa e i propri fratelli. Film impressionante dal punto di vista visivo – l’uso di colori “autunnali” ricorda il recente Frozen River, cui è accomunato anche da vicinanze tematiche, come il vivere sul filo rispetto alla legge – e con ambientazioni selvagge e una rappresentazione dell’umano simile per tanti aspetti a un caposaldo del cinema della natura selvatica, Un tranquillo week end di paura (Boorman, 1972). Impressionante però anche dal punto di vista simbolico: il viaggio che, da sola, percorre la giovane Ree è ricco di valore; è un viaggio nel nome del padre o di ciò che di lui rimane, e il padre di Ree era tutto tranne che un padre integerrimo e presente. Eppure, per tutto il film, il padre viene evocato continuamente e silenziosamente e il desiderio della sua presenza percorre e dà senso all’intero viaggio. Non solo: il viaggio, come in tutti i grandi road movie, è un viaggio che ha un punto di partenza e uno scopo ben preciso, alla fine del quale matura un cambiamento, inaspettato, in questo caso, soprattutto per le persone coinvolte, come lo zio della protagonista, che è toccato sinceramente dalla testardaggine della ragazzina che non voleva darsi per vinta.

Ma più di tutto colpisce il motore e le ragioni di questo viaggio che si configura in più di un momento come una discesa agli inferi. Un viaggio di dolore, una vera e propria via crucis laica, che si compie per amore: per amore di una casa che deve rimanere in piedi, per amore di fratellini che non sanno cosa è la vita e anche per amore dei genitori, che non sanno quello che fanno. Un viaggio per costruire e, per una volta tanto, non un viaggio dalle responsabilità, come ricorda, in una delle sequenze più significative, il militare di fronte all’intenzione di Ree di arruolarsi nell’esercito: “La sfida più grande è rimanere e tirar grandi i fratellini”. In un mondo brutto, sporco e cattivo dove a dominare pare soltanto la violenza e la legge del più forte, c’è chi ha il coraggio di sperare. E forse di cambiare, come suggerisce, con discrezione, l’intenso finale.

Simone Fortunato