Ultime recensioni dalla Mostra di Venezia, iniziata l’1 settembre e che si conclude stasera con l’assegnazione dei premi della selezione ufficiale.
Massimo Sisti è un igienista dentale con uno studio a suo nome, uno stile di vita sobrio, due figlie adolescenti e una moglie. La sua villa si erge su una zona collinare nei pressi di Latina, una volta alla settimana si vede con l’amico di una vita per bere una birra, e la sua vita sembra procedere nella più assoluta, quotidiana, normalità. Un giorno come un altro si fulmina una lampadina, lui scende in cantina per recuperarne una nuova e l’assurdo irrompe nella sua vita.
Dopo gli eccelsi La terra dell’abbastanza e Favolacce, i gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo approdano al Lido con il loro terzo lungometraggio in poco meno di quattro anni, continuando a esplorare il territorio oscuro della psiche umana e l’impenetrabilità delle sue dinamiche. In America Latina (in concorso) raccontano la storia dell’uomo più comune, la cui vita viene sconvolta da un evento incomprensibile che rivoluzionerà le coordinate della sua esistenza: la classica struttura dal thriller americano, insomma, che riecheggia nel titolo del film e soltanto in quello, perché purtroppo l’operazione di ri-ambientazione di uno dei generi più prolifici del cinema americano è quasi del tutto fallimentare. Portando agli estremi le peculiarità del loro cinema, i D’Innocenzo lavorano per sottrazione, lasciando alla messa in scena e all’interpretazione dell’eccelso Elio Germano la responsabilità di far emergere cause, sviluppo ed esiti della spinta narrativa: una scelta concettualmente raffinata, ma poco efficacie quando la struttura del racconto risulta di per sé fragile e i personaggi poco caratterizzati. La scarsa consistenza della trama si affianca poi a scelte estetiche anch’esse estreme, con una fotografia scura e claustrofobicamente serrata nei primi piani dei volti. Chi guarda si ritrova dunque rinchiuso insieme al protagonista in un vero e proprio incubo: eppure l’esperienza di visione, alla fine dei giochi, finisce per annoiare lo spettatore, già indirizzato da tempo verso la risoluzione di un mistero che di per sé ben poco aveva di misterioso e interessante. Un vero peccato per i due registi romani, che in passato avevano già dimostrato di avere un talento straordinario e che qui sembrano invece aver perso le coordinate della loro stessa storia. (Letizia Cilea)
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Mastodontico dramma in costume per Ridley Scott, che con The Last Duel ci catapulta direttamente nelle corti di un medioevo francese fatto di lealtà, battaglie, onore e lotte all’ultimo sangue. Jean de Carrouges e Jacques Le Gris sono amici da una vita, hanno combattuto battaglie insieme e si sono reciprocamente salvati la vita. Quando Jacques inizia a stringere amicizia col perfido luogotenente Charles VI, i rapporti tra i due iniziano a cambiare: è l’inizio di una rivalità che sfocerà in un vero e proprio duello all’ultimo sangue quando Marguerite, moglie di Jean, accuserà Le Gris di averla violentata.
Tratto dal romanzo storico L’ultimo duello di Eric Jager, il film del regista americano racconta la stessa storia di violenza in tre atti e secondo la prospettiva dei tre diversi personaggi protagonisti: il primo a narrare tutta la vicenda è proprio Jean, scudiero al verde, uomo rozzo ma leale, perfettamente a suo agio con lo sporco e la fatica causati dal lavoro nei campi e dalle battaglie. Alla sua versione si contrappone quella di Le Gris: sveglio e colto arrampicatore sociale, ma brutale amante delle belle donne. Infine la storia di Marguerite, donna raffinata e intraprendente, moglie di Jean e vittima della violenza. In questo caleidoscopio di racconti ciò che varia non sono tanto i fatti narrati, quanto la percezione che ciascun protagonista ha di quei fatti: una violenza (e forse più di una) c’è stata. L’intera ricostruzione storica mira allora a far emergere come quel fatto brutale sia anticipato, circondato e forse incoraggiato da un intero contesto che è proiezione del maschile, delle sue necessità e delle sue regole. Una mascolinità che nelle sue diverse forme è pur sempre tossica, ma anche pur sempre derivante da un background medievale ormai esauritosi: così la sceneggiatura si sforza di adattare dialoghi, sensibilità e percezioni contemporanee ad atmosfere antiche, dandoci l’impressione di voler trasportare la causa del #MeToo in un 1400 che considerava la donna poco più che un orpello al servizio della casata di appartenenza.
Nonostante l’anacronismo dell’intera operazione il film di Scott si regge comunque su un ritmo narrativo capace di intrattenere per ben 152 minuti, complice anche l’enorme sforzo nella ricostruzione storica e l’appassionante racconto della vicenda giudiziaria, con tanto di attenta documentazione sulla giurisprudenza medievale. Eccellenti, come al solito, le interpretazioni di Matt Damon, Jodie Comer e dell’ormai onnipresente Adam Driver nei panni dei tre protagonisti. (Letizia Cilea)
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Ultimo film fuori concorso dell’ultima giornata di festival, Il bambino nascosto è un film di Roberto Andò, tratto dall’omonimo romanzo dello stesso regista. La storia è ambientata in una zona malfamata di Napoli, dove Gabriele Santoro, maestro di musica al conservatorio della città, si barcamena tra disgrazie, scippi e una malavita che ha ormai invaso il suo quartiere. Rientrato in casa dopo una qualsiasi lezione, si ritrova in compagnia di un ragazzino di nome Ciro, che scoprirà essere fuggito dalla sua stessa famiglia.
Interpretato eccelsamente da Silvio Orlando, qui nei panni del maestro di musica, il film di Andò mette in piedi un racconto sulla camorra tentando però di sfuggire ai cliché tipici del genere: il contesto malavitoso e i grugni dei cattivi che si aggirano per le strade non mancano, eppure ciò su cui l’interesse dello spettatore è indirizzato sin da subito è l’eroica semplicità dei protagonisti di questa storia. Il rapporto tra Ciro e Roberto è all’inizio burrascoso, i due si studiano e spesso non si comprendono, eppure entrambi sanno di potersi fidare l’uno dell’altro: concentrandoci sulla strana quotidianità che i due si costruiscono, mettiamo a fuoco tanto l’uno quanto l’altro personaggio, scoprendone le somiglianze e la condivisa volontà di curarsi, reciprocamente, della propria incolumità.
La messa in scena è ben curata e il racconto ruota per lo più intorno agli spazi chiusi della casa, e anche se a lungo andare lo spettatore soffre della ripetitività di alcune dinamiche (il campanello che suona, la visita di personaggi ambigui, gli sguardi dei protagonisti dalla finestra), la sceneggiatura si distingue per l’attenzione dedicata a piccole scenette quotidiane, tenerissime e capaci di costruire, più di ogni altra cosa, la personalità di Ciro e Gabriele. Altra nota a favore il finale, per nulla scontato, che nella sua semplicità è in grado di comunicare un senso di liberazione e ottimismo raramente presente nei film su simili tematiche. (Letizia Cilea)
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Cinque anni per girare un film? È ancora possibile? Californie, vincitore dell’Europa Label Cinemas alle Giornate degli Autori della Mostra di Venezia 2021, è la seconda opera dei registi Casey Kauffman e Alessandro Cassigoli.
Perché ci sono voluti cinque anni? I registi hanno girato questo tempo per raccontare Jamila, una ragazzina nata in Marocco e cresciuta a Torre Annunziata. Arabo e napoletano sono le due lingue di questo film italiano che è un piccolo gioiello per come è stato pensato, realizzato e per come sarà distribuito in sala grazie a Fandango.
Non si comprende mai quale sia la finzione e quale sia l’inizio perché Californie è un ibrido che parte dall’incontro con la piccola Khadjia Jaafari, conosciuta nel loro esordio Butterfly. Jamila ha 9 anni quando i registi decidono di raccontare la sua vita. Ama uno sport poco femminile come il pugilato e sceglie un lavoro, per il quale ha chiaramente una dote, come quello della parrucchiera. Lei è in Italia insieme alla famiglia, voluti dal padre che ha trovato lavoro a in Italia. E se un giorno il padre tornasse, sempre per lavoro, in Marocco?
Piccola storia, che richiama un’operazione filmica molto più lunga come Boyhood di Richard Linklater, ma che ricorda come c’è ancora spazio per film essenziali che raccontano, meglio di tante opere di finzione, come l’interculturalità è un valore per la nostra società. (Emanuela Genovese)
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Vincitore della sezione Orizzonti come miglior film, Pellegrini – del regista lituano Laurynas Baresia – racconta il percorso di un ragazzo e una ragazza che rievocano la morte di una persona a loro molto cara.
È un viaggio nel dolore quello che Baresia mette in scena. Una sorta di road movie a Vilnius e dintorni che vede protagonisti Paulius e la sua amica Indre motivati a ricostruire le ultime ore di vita di Matas, fratello del primo ed ex fidanzato della seconda. Paulius non si dà pace della morte tragica del fratello, vuole rivedere persone, ambienti e rivivere le ultime ore di vita del fratello. La sua è quasi un’ossessione; ad esempio, ricompra l’auto in cui Matas venne rinchiuso nel bagagliaio prima di essere ucciso. Indre sembra più indifferente e trascinata dall’amico ma porta con sé il dramma di aver dovuto abortire il figlio di Matas, dopo la morte del ragazzo. Il legame intimo, però, è ancora forte come vediamo nella scena in cui Indre si immerge nella pozza d’acqua dove venne ritrovato il cadavere del fidanzato. I toni sono molto trattenuti, la sofferenza è palpabile ma non manifestata con evidenza per un finale in cui si capisce che entrambi devono ancora fare definitivamente i conti con una tragedia che ha tolto loro gioia e speranze. (Aldo Artosin)
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Dal concorso di Orizzonti arriva anche White Building, del cambogiano Kavich Neang. Samnang ha 20 anni e sogna di diventare una stella della danza. Quando, però, arriva la notizia che il palazzo in cui vive con la famiglia deve essere abbattuto, la sua vita cambia.
Il film è un pretesto per raccontare non solo la bella e sincera storia di amicizia che lega Samnang (Piseth Chhun, premiato come miglior attore di Orizzonti) ai suoi compagni di danza, ma per offrirci uno spaccato sociale della Cambogia odierna. Pur in centro alla capitale Phnom Penh, il palazzo in cui vive Samnang è fatiscente, sembra impossibile poterci vivere ma fa gola ai moderni speculatori edilizi. I suoi inquilini sono comunque molto legati allo stabile non avendo alternative dove andare a vivere.
White Building ci porta poi dentro la famiglia del protagonista per descriverci un bel rapporto, non facile ma colmo di rispetto, con il padre malato di diabete per le decisioni difficili che saranno chiamati a prendere. Un buon esordio che trae spunto anche da vicende autobiografiche che hanno visto coinvolta la famiglia stessa del regista. (Aldo Artosin)
Nella foto grande: America Latina di Damiano e Fabio D’Innocenzo