Tutto il film si snoda come un monologo che lo stesso protagonista e regista Gauillaume Gallienne recita a teatro, davanti a un pubblico, mentre le immagini saltano ben presto ai flashback che hanno portato alla sua maturazione di un’identità. Sessuale ma non solo: come da manuale di psicoterapia, è il rapporto con una madre, amatissima ma a dir poco castrante (peggio di quella di Woody Allen nel celebre episodio Edipo relitto, in New York Stories del 1989), quello che condiziona il povero Gauillaume. Non a caso interpretata dallo stesso attore, camuffato e credibile anche come donna matura – e infatti in entrambe le versioni ricorda il giovane Dustin Hoffmann: ha qualcosa di Tootsie, quella mamma frustrata e irritante – la madre è sboccata e volgare (prima di andare in bagno, dice “ho la vescica che mi arriva in gola…”), nervosa e ipocrita; soprattutto, fin da piccolo distingue e separa nettamente i due fratelli maschi più grandi da Guillaume. Quando deve chiamarli per pranzo, urla: I ragazzi e Guillaume, a tavola! (traduzione del titolo originale). Lui si sente escluso dalla voce “ragazzi” e al tempo stesso preferito: arriva a credere di essere una ragazza, imita l’adorata madre, si veste con abiti femminili, ha il mito di Sissy (e dell’Arciduchessa..) e soffre solo perché il padre non lo capisce. Ma non dubita mai: lui non sa di essere un uomo. Ma quando tutti iniziano a guardarlo storto, a deriderlo, a chiamarlo omosessuale non capisce; e solo quando la madre sbotta in tal senso, va in crisi e prova a capire se gli piacciono gli uomini da quel punto di vista. Il film, autobiografico al massimo e tratto dalla pièce teatrale che l’autore-attore – davvero straordinario, il valore assoluto del film – ha portato per anni nei teatri francesi, è originale come struttura quanto a tratti di corto respiro (e la durata molto breve è giusto sufficiente perché l’apologo non venga a noia). La parte che convince meno è la peregrinazione tra collegi maschili (con infatuazioni per il bello di turno) e locali gay per rimorchiare, anche se a fini “terapeutici”; molte figure sono solo abbozzate o irritanti (i fratelli, le zie, i vari psicanalisti), se non grotteschi (i massaggiatori, tra cui la sprecata Diane Kruger alle prese con un clistere al povero Guillaume); anche se tra i vari ambienti, intravvediamo un gioco di citazioni anche colto (i film di Almodovar, quelli di Ivory, i già citati film di Sissy e certo cinema tedesco). Per credere alla storia raccontata ci vuole una bella sospensione dell’incredulità. E la soluzione, pur bella, dell’avvenuta consapevolezza del protagonista – grazie, come immaginabile, a un colpo di fulmine – arriva quando il tutto sembra un po’ smorzato. Un po’ didascalicamente, con un monologo bello e pur prevedibile, il finale riannoda però i fili di un rapporto con la madre (che a quel punto, in platea, appare non a caso con sembianze reali e non come il figlio travestito) fino a quel momento insano. Una madre che sembrava tanto forte, ma invece aveva più paura (di perdere il figlio) di lui.,Antonio Autieri,

Tutto sua madre
Un giovane uomo che crede fin dall’infanzia di essere donna, e che tutti in famiglia (e non solo) credono gay. Che confusione per Guillaume…