Marlo ha quarant’anni e si trova immersa nel pieno del tran tran della quotidianità famigliare: un marito, due figli, di cui uno particolarmente problematico, e una terza gravidanza del tutto inattesa agli sgoccioli. Dopo il parto la troviamo ingarbugliata in un disordine esistenziale fatto di difficoltà finanziarie, sogni svaniti e un disfacimento psicofisico al quale pare non esservi rimedio. Il ricco e imborghesito fratello decide però di consigliarle una “night-nanny”, una babysitter che si occupa dei bambini durante la notte per permettere ai genitori di recuperare qualche ora di sonno; dopo parecchie notti insonni e qualche titubanza arriva Tully, una giovanissima ragazza piena di vita e prospettive che sembra avere un’esperienza decennale con i neonati e che notte dopo notte si prende cura della piccola Mia e della stessa Marlo, quasi rinata a nuova vita grazie a questa strana compagna notturna.

Charlize Theron sembra aver fatto un’altra delle sue magie: come già dieci anni fa in Monster, per interpretare il ruolo di questa donna di mezza età sull’orlo di una crisi di nervi ha accettato di ingrassare ben 23 chili in una delle sue migliori interpretazioni; ha così trasformato completamente la sua fisionomia, resa più ingombrante ed efficace nella resa interpretativa del personaggio e dell’intero contesto narrativo. Perché è soprattutto il corpo di Marlo a parlarci sin da subito della sua condizione di donna-madre alla terza gravidanza, distrutta e comunque pronta al sacrificio per riuscire a regolare i già difficili equilibri della sua famiglia.
In una scrittura che è tutto tranne che politically-correctla sceneggiatrice Diablo Cody (che ha già collaborato con il regista Jason Reitman per Juno e Young Adult) qui non ha paura di mostrarci il lato oscuro della maternità: depressione post-parto, insonnia e fatiche al limite della sopportazione, drammi e gioie che scandiscono ripetutamente una routine in cui tutto il sudore è dedicato interamente al bene di qualcuno che non sei tu e che da te comunque dipende. Più facile a dirsi che a farsi, ed è senza mai indorare la pillola che Tully sa gettarci dentro ledifficoltà dell’esperienza genitoriale, quasi a volerci domandare se la gratuità di questo sacrificio valga la pena, a fronte della rinuncia alla promessa di realizzare la propria idea di indipendenza nel mondo globalizzato.

È proprio quando i giochi sembrano fatti e il sentiero già tracciato che la pellicola di Reitman sorprende: l’arrivo della bella Tully sembra il classico espediente da commedia hollywoodiana, il clichè della giovane tata che dà tregua alla protagonista e col tempo s’insinua come sua antagonista a rompere l’integrità della famiglia; ma il devotissimo uomo di casa a stento sa della sua esistenza, e le battute e i gesti calibrati della brava e pulita Mackenzie Davis  sono indizi della profondità e visceralità del personaggio di Tully; sarà proprio lei a costruirsi passo dopo passo insieme e contro la protagonista, risolvendo una serie di volute incongruenze di trama con un finale commovente dalle tinte quasi thriller.

Ma al di là delle svolte narrative più o meno sorprendenti, una lettura tra le righe ci apre ad una sorta di storia di formazione collettiva, che appartiene tanto a Marlo e a Drew, marito distratto ma amorevole, quanto al piccolo Jonah, figlio insicuro e iperattivo che come la madre ha talvolta soltanto bisogno che qualcuno di reale gli sia a fianco a ricordargli di essere voluto, nonostante e attraverso le fatiche e i disastriche accompagnano l’esistenza.

Maria Letizia Cilea