Delusione cocente. Per i nostalgici, del primo memorabile (per quanto non privo di difetti) film del 1982, ma anche per gli appassionati di fantascienza tout-court. Partiamo dalle cose che funzionano, ché anche in un film irrisolto possono esserci dei punti di forza. L'impatto scenico con un 3D spesso efficace anche se a intermittenza; un design hi-tech e minimalista molto suggestivo, un'imponente strategia di marketing partita più di un anno prima dall'uscita del film assai diversificata (viral marketing, trailer assai seducenti). Un blockbuster nel senso vero della parola da un punto di vista produttivo (si parla di almeno 170 milioni di dollari spesi dalla Disney) che però si è rivelato alla resa dei conti un gigante dai piedi d'argilla. Soprattutto per gravi problemi di sceneggiatura: gli sceneggiatori (Edward Kitsis e Adam Horowitz, direttamente da Lost) cercano di rimanere fedeli alla storia, assai esile, dell'originale. Sdoppiano il personaggio di Bridges in Clu, un alter ego cattivo e ringiovanito dal digitale ma, incredibilmente, lasciano defilato il personaggio di Tron e del suo programmatore, interpretato da Bruce Boxleitner. Una scelta disastrosa perché spezza la continuità col film originario in cui Tron era il programma protagonista oltre che sodale di Bridges e perché semplifica ulteriormente una vicenda che in questo sequel sembra l'ultima cosa a cui l'anonimo regista e gli sceneggiatori guardano. Non che la vicenda di Tron fosse davvero clamorosamente originale: di nuovo, in quel film così strano, naif e profetico, c'era l'idea e la realizzazione dell'idea stessa. Quella di poter digitalizzare un essere umano e renderlo attivo e partecipe nel sistema operativo di un computer. Vedere il protagonista, un “creativo” lottare con il sistema, impersonando una sorta di virus “buono” era qualcosa di davvero nuovo agli inizi degli anni '80 quando l'era digitale era ancora di là da venire e gli effetti speciali erano di solito appannaggio di geniali artigiani alle prese con mostri meccanici, modellini di astronavi e quant'altro. Tron: Legacy punta molto sull'impatto visivo, come si è detto, ma stanca quasi subito. Un po' per la ripetizione monocorde delle sequenze d'azione spettacolari ma gratuite, un po' perché sullo sfondo di questo mondo virtuale non c'è davvero nulla e chi è sul palco ha poco da dire e da fare. Pochi personaggi, uno decisamente sopra le righe (il bravo Michael Sheen alle prese però con un ruolo assolutamente inutile sul piano narrativo); due ragazze (Beau Garrett e Olivia Wilde) assai sexy in tutina fluorescente ma a cui sono destinati dialoghi ridicoli. E poi i protagonisti, Bridges nei panni, anche qui più ridicoli che naif di un santone pacifista e in quelli più interessanti sulla carta ma assai poco approfonditi del cattivissimo Clu. Infine Sam, il personaggio d'azione, interpretato dal poco convincente Garrett Hedlund, privo dell'ironia e del fascino di tanti eroi della fantascienza. Il problema, però, più che sugli attori (anche se Hedlund – aiuto! – ci ricorda più Antonio Cassano che Han Solo) è sulla sceneggiatura che, dopo un buon inizio spettacolare, non sa come gestire una storia che non sa da che parte andare e ha molti momenti morti (“Come è il sole ?”, chiede la Wilde che non ha mai visto la realtà vera: “È caldo, radioso, splendido”, si sente rispondere dal giovane protagonista. Per non dire delle citazioni, davvero fuori luogo all'ovvio Matrix un po' dappertutto e persino a 2001: Odissea nello spazio in quella sequenza in cui il Mahatma Bridges invita nel candido nascondiglio che si è creato il figlio che non vede da anni. E a cui serve, horribile dictu, un'incredibile quanto virtuale porchetta.,

Simone Fortunato

,