L’inizio è un vero choc: si vede un video girato con un cellulare, e una ragazza di nome Marziyeh chiedere aiuto, affermare che il suo sogno era fare l’attrice ma che la famiglia glielo impedisce e le toglie libertà. Infine, il video – molto confuso – sembra concludersi con il suicidio per impiccagione. Quel video arriva a Benhaz Jafari, celebre attrice iraniana (era in Lavagne di Samira Makhmalbaf, film premiato a Cannes nel 2000), che interrompe le riprese del suo film e si rivolge al suo amico regista Jafar Panahi, non sapendo come interpretare quel video sconvolgente. E come, eventualmente, poter aiutare la ragazza. Insieme, i due iniziano un viaggio in auto che li porta verso il villaggio della ragazza, in zone aspre e montuose del nord ovest dell’Iran (ai confini con la Turchia: da lì proviene la famiglia del regista), dove le condizioni di vita sono dure per tutti e dove la mentalità è ancora più chiusa che nel resto del Paese.

È ormai nota la condizione di Jafar Panahi, da anni condannato dal regime iraniano non solo a non muoversi dal suo Paese ma anche a non poter girare film. Con coraggio e genialità il cineasta ha sempre aggirato i divieti, prima con opere semiclandestine, quasi illegali (This is not a Film, Closed Curtain e il bellissimo Taxi Teheran, Orso d’oro a Berlino 2015), fatte arrivare all’estero anche con modi rocamboleschi. Ora sembrerebbe con qualche margine di manovra in più, a fronte di misure meno stringenti (in Tre volti tornano i titoli di coda con i nomi degli interpreti, che a quanto pare rischiano meno a lavorare con lui: peraltro la protagonista non ha voluto essere pagata). Panahi viene peraltro invitato da anni in concorso con i suoi film nei maggiori festival, dove regolarmente non può partecipare. E dove regolarmente vince un premio: stavolta, il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes 2018.

Rispetto a Taxi Teheran, tutto girato nell’abitacolo di un veicolo guidato dallo stesso Panahi – che ovviamente recita ancora se stesso, come pure fa Benhaz Jafari – con una telecamera nascosta (o presunta tale), in Tre volti c’è più movimento e ariosità: è praticamente un road movie (c’è ancora lui al volante…), si vedono paesaggi, ci sono tanti incontri, c’è anche un minimo di storia. Anche se tutto va filtrato attraverso quello che l’autore vuole dirci tra le righe di una libertà di espressione limitata; se da sempre la metafora è l’arma degli artisti che vivono in paesi dove è attiva la censura, nel suo caso la questione è ancora più urgente, ma risolta spesso in modo creativo (anche se stavolta il succedersi dei fatti è a tratti meno incisivo) da un autore molto acuto da sempre – e in modo vertiginoso negli ultimi film – nella riflessione sull’uso delle immagini e sul rapporto tra verità e finzione, ma anche mai attento alla gente comune (pur nelle sue contraddizioni) come in questo film. Dopo la buffa telefonata con la madre, preoccupata per la sua situazione, che gli chiede di non dire bugie e di ammettere che sta girando un film (ma lui nega…), vediamo tutta una serie di persone che Benhaz Jafari e Panahi incontrano, che sperano di essere aiutati da loro anche nelle questioni più materiali. E poi ragazze che sognano di fare cinema come possibile fuga dalla famiglia e da una realtà che toglie aria e libertà, attrici del passato considerate immorali e attrici del presente che riflettono sul proprio mestiere. In un Paese in cui la condizione femminile non è certo facile (ne è un controcanto l’ironia su un’ideologia maschilista rozza e a tratti grottesca).

I Tre volti del titolo sono proprio le tre donne (la ragazza, l’attrice celebre, la diva del passato che peraltro intravediamo solamente in un gioco di ombre), che al tempo stesso rappresentano tre età anagrafiche e tre momenti del cinema iraniano. In quel video choccante e poi nei vari incontri sembra di leggere la richiesta di aiuto al Cinema, che può ancora salvare le persone (anche l’autore stesso). Un Cinema più vitale che mai, che può permettere l’estrema libertà a che a un regista recluso o condannato da un pesante divieto, attraverso i nuovi mezzi tecnologici che stanno regalando una nuova “vita artistica” a Panahi, con l’uso di videocamere o così piccole da poter essere nascoste ovunque o così leggere da poter evitare l’uso di troupe pesanti. Mezzi che gli consentono soprattutto di dispiegare il suo stile rarefatto e personalissimo (certo non per tutti) e la sua libertà di pensiero e creativa. In questo simile a certi film del suo maestro Abbas Kiarostami (di cui fu l’assistente per anni), decisamente evocato in due momenti: quello in cui una donna si sdraia in una fossa (omaggio divertito a Il sapore della ciliegia); e poi nel finale in cui l’autore vede l’attrice e la ragazza parlarsi e non sente cosa dicono: evidente cittazione dello splendido finale di quel grande film che fu Sotto gli ulivi.

Antonio Autieri