Un condominio, tre piani e altrettante famiglie nella Roma bene. In una notte, oltre alla vicinanza fisica e alla conoscenza più o meno approfondita, i destini si incrociano. Una donna sta andando a partorire da sola, ed è in cerca di un taxi con il trolley mentre sente le doglie (il marito è lontano per lavoro), e intanto un’auto arriva all’impazzata e investe un’altra donna prima di finire la sua corsa contro il pianterreno adibito a studio di un professionista. Mentre la prima donna va in ospedale, e non potrà fare da testimone quando tornerà a casa con la bimba (mentre sarà alle prese con la solitudine e con il suo senso di inadeguatezza), un ragazzo ha distrutto una vita e rovinato la propria e quella dei genitori, entrambi magistrati, che non possono (e non vogliono) far nulla per evitare che sconti la giusta pena. La terza famiglia sembra assistere solo come spettatrice: ma quell’incidente può aver turbato la loro figlia, che per l’ennesima volta viene lasciata per dormire tranquilla di notte dagli anziani vicini, quasi nonni “adottivi”. Ma quell’anziano signore affettuoso, dice la bambina, «è guasto», dimentica le cose. E in un’altra occasione uscirà con la bambina e si perderà in un bosco, suscitando un terribile sospetto nel padre della piccola.
Già l’inizio di Tre piani – girato oltre due anni fa e poi bloccato a causa della pandemia – è un insieme di drammi, tragedie, fatti sconvolgenti che rompono l’apparente sicurezza e anche un certo benessere dei vari personaggi, Un “benessere” fittizio: stanno tutti male, e staranno sempre peggio. Nell’arco di dieci anni – il film è diviso in tre blocchi: a ogni parte segue uno stacco con l’indicazione “5 anni dopo” – vediamo le vite di Lucio e Sara, coniugi il cui matrimonio andrà in crisi nonostante non svanisca l’affetto, dei giudici Vittorio e Dora sempre più lontani dal figlio che non segue la loro “strada”, e di Monica mamma depressa con il marito Giorgio sempre all’estero. Moretti, partendo dall’omonimo romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo (ed è la prima volta che parte da un soggetto e da un testo altrui) per la sceneggiatura firmata insieme a Valia Santella e Federica Pontremoli, non solo cambia ambientazione ma anche la struttura narrativa per monologhi. Problema secondario, di fronte a una tenuta narrativa esilissima, ad attori non sempre messi in grado di tirar fuori personaggi credibili e soprattutto alla povertà di sceneggiatura e di dialoghi. Troppe scene che non funzionano (a partire dalla prima: dovrebbe essere tragica, risulta vagamente grottesca per quanto è goffo l’incidente e l’investimento della donna), troppi salti bruschi e brevi momenti che si accavallano l’un l’altro a stordire lo spettatore di trame, sottotrame (il cognato in fuga per una truffa), svolte; troppe frasi sentenziose; e anche qualche simbolismo infelice, come un grosso corvo nero che ogni tanto appare alla mamma depressa.
Un regista, considerato da sempre magari non il massimo dal punto di vista della cura visiva ma sicuramente rigoroso per narrazione e controllo sulla recitazione (leggendari i suoi innumerevoli ciak pure per la battuta di una comparsa), qui presenta una serie di scene tirate via, soprattutto nella parte finale, con frasi “lanciate” da personaggi che poi escono dall’inquadratura per lasciar spazio ad altri e così via. Ne fa spese per esempio il personaggio di Tommaso Ragno, che spunta all’improvviso e prende un peso non indifferente; ma anche quello di Alessandro Sperduti (il figlio omicida involontario. ogni sua scena con i genitori è a rischio di essere sopra le righe); ma a parte qualche raro momento nella parte iniziale (soprattutto per la coppia Riccardo Scamarcio-Elena Lietti e per la professionalità di Margherita Buy, comunque in un ruolo che la comprime) soffrono più o meno tutti gli interpreti (su tutti Alba Rohrwacher ma anche Adriano Giannini, mentre a un bravo caratterista come Teco Celio viene “regalato” un cameo imbarazzante). Alcune scene rischiano addirittura di passare alla storia degli “scult”: una brutta sequenza di assalto a un centro di aiuto agli stranieri e l’ormai celebre ballo collettivo in strada che fa rimpiangere l’estro del Moretti anni 80 e 90. Perfino il Moretti attore, che un tempo poteva piacere o non piacere da giovane con il suo stile straniante o con ruoli un po’ estremizzati, ora è raggelato in un sottotono in cui risulta bolso e meccanico: l’intenzione forse era stigmatizzare la durezza del suo giudice troppo rigido con il figlio, ma l’effetto è molto debole, come tante altre situazioni del film. Un marito lascia così tanto a lungo da sola una moglie evidentemente fragile e a rischio di andare in pezzi, pur amandola molto? E oltre tutto il film non ci fa capire dove lavora – non troppo lontano o dall’altra parte del mondo? – lasciando un’indeterminatezza che infastidisce. Un altro uomo si fa irretire così facilmente da una ragazzina (che goffa la scena di seduzione e sesso, che parte da una patetica bugia) mandando in fumo il suo matrimonio, nel mezzo dell’angoscia che sta provando per quanto potrebbe essere successo a sua figlia? Certo, il cuore dell’uomo è insondabile. Ma chi scrive un personaggio deve dargli corpo e veridicità, altrimenti in platea non si riesce a crederci.
L’impressione è che Tre piani, trattato in parte con freddezza e in parte con fin troppo tatto dalla critica italiana dopo il passaggio in concorso all’amato, da Moretti, Festival di Cannes 2021, sia semplicemente un film brutto e non riuscito nonostante le buone intenzioni e le tante cose da dire. Eppure, da quanto Moretti – a parte il bel documentario Santiago, Italia – non centra completamente un film? A nostro parere, da troppo tempo; da La stanza del figlio con cui vinse vent’anni fa la Palma d’oro a Cannes. Mia madre aveva un bel nucleo forte annacquato da una sottostoria cinematografica debolissima, Habemus Papam era un’operina sopravvalutata per la provocatorietà della storia del Papa in crisi, Il caimano lo era altrettanto perché nasceva come film indignato da parte di un autore che aveva sempre proclamato (fin dai primi corti) che prediligeva l’urgenza delle proprie istanze personali a quelle di un “politico” da cui rifuggiva pur partecipandovi da sempre. Tre film nettamente al di sotto dei suoi film migliori, comunque. Tre piani purtroppo, che mescola storie private a uno sguardo umano e “politico” sconfortato sulla nostra società (con una speranza finale alquanto fragile, dopo tanto dolore, e una moralina sulla necessità di “uscire” da quel condominio e aprirsi al mondo che non riesce a toccare nel profondo), prosegue quella che sembra una parabola discendente dell’autore. Sperando che l’ispirazione torni a far capolino nei suoi film e nella carriera di quello che rimane uno degli uomini di cinema italiani più importanti degli ultimi quarant’anni.
Antonio Autieri
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