La vita, l’ascesa e la caduta della pattinatrice Tonya Harding era tale da attirare per forza Hollywood. Insicura e fragile a causa di un’infanzia angosciosa (l’amatissimo padre costretto a lasciare la casa, la violenta e acidissima madre – interpretata da Allison Janney, premiata con l’Oscar come miglior attrice non protagonista – che cambiava mariti in gran velocità e che l’ha cresciuta tra cattiverie di ogni tipo e mancanza di amore), diventata giovanissima campionessa più per grinta e forza della disperazione che per il talento e lo stile (altre rivali sembravano più eleganti), si infilò nel tunnel di un matrimonio con un uomo altrettanto fragile e sbandato. Quel Jeff Gillooly con cui si prendeva e si lasciava di continuo – con litigi spesso violenti – e che fu l’inizio della sua fine, come mandante del famosissimo “incidente” alla rivale Nancy Kerrigan (il suo opposto, per modi di comportamento). Tonya, che protesterà la sua innocenza ed estraneità ai fatti (oltre tutto lei e Jeff erano già separati), era davvero complice di quell’attentato alle gambe di Nancy poco prima delle Olimpiadi che avrebbero dovuto segnare il suo riscatto, o quanto meno ne era al corrente?
Tonya non è il solito film biografico-sportivo. Non solo perché il regista Craig Gillespie (che dopo il bellissimo esordio Lars e una ragazza tutta sua non si era più fatto apprezzare particolarmente), partendo da una sceneggiatura di Steven Rogers, non racconta di un eroe vincente, bensì di una sciagurata perdente e autrice, forse, di un atto spregevole. Ma perché, fin dall’inizio, mostra da un lato il punto di vista dei vari personaggi in campo (Tonya e il suo ex marito, interpretati dagli ottimi Margot Robbie e Sebastian Stan, la madre e anche altri); dall’altro fin dall’inizio mette in chiaro che i loro ricordi sono spesso volutamente viziati da menzogne in serie. E non solo per la finzione cinematografica, ma perché sono davvero così i personaggi e di conseguenza il materiale di partenza (un cartello avvisa subito che il film è stato tratto da interviste «assolutamente vere, totalmente contraddittorie e prive di qualsiasi ironia con Tonya Harding e Jeff Gillooly»…), che a volte guardano “in macchina” lo spettatore e assicurano di dire la verità, rafforzate da volte da un convinto o anche ironico «è andata proprio così», magari mentre stanno facendo l’esatto contrario di quel che asseriscono. Ne deriva un film originale e moderno, grazie anche a un’ottima regia (numerosi stacchi e movimenti di macchina) e a una notevole colonna sonora, con brani di musica classica affiancati da “pezzi” moderni; spettacolare il giusto (con le gare realizzate tra mille effetti: nessuno stunt riusciva a ripetere certi movimenti, Tonya fu la prima dopo decenni a realizzare il difficilissimo triplo axel).
Un film spiazzante e apparentemente ambiguo, Tonya, che a qualcuno è apparso troppo “innocentista” o giustificazionista, e che invece ha un grande merito non puntando sulla facile stigmatizzazione di un “mostro”, ma preferendo sondare l’insondabile. Ovvero indagare l’umanità assurda e contraddittoria di persone senza arte né parte (tra i pochi personaggi umani Diane Rawlinson, l’allenatrice di Tonya, che le vuol dare sempre un’altra possibilità e che sembra una creatura di un altro pianeta). Uomini e donne vere, persone talora anche buffe (uno su tutti chi assoldò l’esecutore materiale, ovvero il sedicente “bodyguard” di Tonya, che sembra un personaggio inventato; e invece…) che più desiderano uscire dai propri angusti orizzonti e più ricadono – a volte in modo tragicomico – nel buio dei propri errori. Comunicando allo spettatore più sensibile non la facile indignazione, ma una doverosa pietas.
Antonio Autieri