Casey Newton è una ragazzina ottimista e con il pallino per la scienza. Un giorno riceve una misteriosa spilletta che le permette di accedere alla misteriosa Tomorrowland

Recensione

Parte della delusione che si prova davanti a questa avventura futuristica e family friendly targata Disney (per cui qualcuno ha opportunamente evocato la dizione “una versione teen di Interstellar”) deriva probabilmente dalle aspettative generate dal coinvolgimento, alla regia e nella scrittura, di Brad Bird, cui si devono non solo i capolavori Pixar Gli Incredibili e Ratatouille (veri e propri inni all’importanza dell’eccellenza individuali e alle possibilità di superare le aspettative in nome di una passione), ma anche un prodotto più adulto e di genere come Mission Impossible: protocollo fantasma.

A Damon Lindelof, uno tra gli autori di quell’autentico fenomeno di culto per la televisione del terzo millennio che è stato Lost, si deve l’aura di mistero che ha avvolto il progetto e che si trasforma in una certa perplessa confusione di fronte allo svelarsi, in un finale tanto pirotecnico quanto affrettato da punto di vista tematico, di tutta la complicata trama che sta dietro alla distribuzione, da parte di una bambina stranamente senza età, di misteriose spillette a sognatori dotati di menti scientifiche e creative.
Non che Tomorrowland non offra momenti di autentica meraviglia, come durante il primo “viaggio” nella futuristica città che dà il titolo alla pellicola, o quando la dimora dell’inventore scorbutico rivela tutte le sue ingegneristiche sorprese con un ritmo degno di un cartoon e, soprattutto, quando, in un momento di autentica e spudorata creatività cyberpunk la Tour Eiffel palesa la sua natura di rampa di lancio per un altro mondo.
L’enorme budget investito, insomma, si vede tutto, anche se ci si aspetterebbe di spendere più tempo nel mondo del titolo e invece si procede per assaggi e le visite a Tomorrowland si rivelano intermittenti come uno streaming mal funzionante. A conti fatti la parte centrale della pellicola, che vira nel thriller complottistico con robot in nero che hanno un sorriso inquietante alla Jim Carrey e una certa facilità a smaterializzare gli avversari, è quella meno convincente di tutte, soprattutto alla luce delle rivelazioni finali.
Il problema maggiore, però, resta il ritmo narrativo e soprattutto il senso generale, pedante fino alla banalità, che culmina nel finale in un generico quanto didascalico appello all’impegno per salvare il pianeta, un misto tra un discorso motivazionale alla Steve Jobs (“stay hungry stay foolish”), uno spot multietnico à la Benetton e il video promozionale di una setta tipo Scientology.
Quanto ai due protagonisti, l’ottimista Casey, è un’adolescente stranamente solitaria la cui genialità è più che altro un dato di fatto, mentre George Clooney (che mette nel gioco tanto il suo potere di star quanto la sua fama di progressista generoso e dedito alle buone cause) lascia alquanto perplessi quando con una quarantina d’anni di ritardo sembra dichiarare il suo amore adolescenziale ad una androide con le fattezze di una bambina di undici anni. Hugh Laurie è il più sprecato nei panni di un cattivo dai piani veramente troppo poco chiari, che a tratti assume più le caratteristiche di un fumetto alla Wile Coyote che di un avversario davvero serio.
L’impressione è che la pellicola ce la metta tutta per intercettare la voglia di cambiamento e di rivolta anti-istituzionale della generazione post occupy (con la sua sfiducia nella politica e nel sistema e la sua tendenza al melting pot aproblematico) ma lo faccia con un piglio da vecchio professore che arringa la gioventù indolente, che rimprovera i giovani virgulti per la loro tendenza a crogiolarsi nel pessimismo, ma non trova di meglio per motivarli che un generico “armiamoci e partite!”.
Ma quando la lezioncina, come in questo caso, sostituisce l’autentico senso di meraviglia, il rischio è che i destinatari si sentano piuttosto indottrinati che ispirati e il richiamo a “nutrire il lupo della speranza piuttosto che quello del pessimismo” assomiglia più alle raccomandazioni di un manuale di self help che ai momenti più ispirati della poetica della Pixar che Brad Bird ha saputo incarnare altrove.

Laura Cotta Ramosino