È uno strano personaggio, quello che tutti chiamano il Professore: uno scienziato che lavora e vive isolato da tutti, in pieno deserto del Navada, a due passi dalla famosa Area 51; quella zona militare in cui l’esercito Usa da sempre effettua test segretissimi e in cui, secondo molti, si conserverebbero resti di ritrovamenti “alieni”. Il film si apre con l’arrivo di un pacchetto da Napoli: dentro, c’è un video per il Professore con cui il fratello lo avvisa della sua morte e dell’imminente arrivo dei suoi due figli, Anita di 16 anni e Tito di 7. Avendo perso anni prima la mamma, lo zio è l’unico parente rimasto al mondo. Per il Professore, che ha sua volta perso la moglie anni prima e passa le giornate su un divano cercando segnali sonori all’aldilà, è uno choc: come comportarsi con loro? E le sue strane e misteriose ricerche, riusciranno a proseguire?

Presentato al Torino Film Festival 2017, dove fu accolto con entusiasmo, Tito e gli alieni è il secondo lungometraggio di Paola Randi (apprezzata a Venezia nel 2010 con Into Paradiso), girato in Nevada e ad Almerìa, in Andalusia (set di parecchi spaghetti western). Una commedia fantasy, meglio ancora una favola surreale e gentile, seppure un po’ leggerina: Valerio Mastandrea è come sempre credibile nella parte del professore goffo e stralunato che si è rintanato in un angolo di mondo per vivere il suo dolore e per cercare disperatamente segnali di vita nello spazio (con la copertura di un progetto per l’esercito Usa), dopo aver captato anni prima qualcosa. Segretamente innamorata di lui è Stella (la francese Clémence Poésy), ragazza che organizza matrimoni tematici “spaziali” per turisti e che gli da autista e aiutante. I due ragazzi che arrivano da Napoli sono simpaticamente veraci e sopra le righe (li interpretano Luca Esposito e Chiara Stella Riccio): sognano di vivere in America, in quella Las Vegas di cui hanno sentito parlare, e si ritrovano in un deserto. E mentre Anita, irritata, cerca di capire se almeno può conoscere qualche bel soldato, Tito soffre per la morte del papà di cui vuole risentire la voce.

Il tono è, appunto, surreale e a tratti anche in modo esagerato: possibile che un bambino di oggi, per quanto di soli 7 anni, creda che attraverso una foto si possa parlare con i morti come con un cellulare? Senza contare che tre morti su quattro in due coppie, in età non anziana, sono forse un po’ troppi come assunto di partenza. Ma Tito e gli alieni ha sicuramente dalla sua una lievità garbata, grazie a questa figura di scienziato triste che ascolta di continuo la voce della moglie Linda registrata in una segreteria telefonica e intanto prova a ritrovarne i segni attraverso una macchina di sua invenzione che capta onde sonore. E quando un colonnello dell’esercito ha deciso di chiudere il suo programma, succederanno cose strane…

Ci si diverte con misura, ci si intenerisce a momenti, ma la commozione finale è un po’ caricata, facendo leva sul desiderio di tutti di rivedere o risentire le persone amate: un classico anche del cinema, arte dell’impossibile che diventa possibile; ma, per quanto in una favola (genere rischioso, soprattutto se si ha a disposizione un budget italiano), tutto o quasi dovrebbe essere consentito, qui le emozioni sono davvero un po’ troppo facili. C’è troppo e c’è troppo poco perché ai personaggi – solo abbozzati e la cui trasformazione, in particolare del Professore, è prevedibile e meccanica – ci si affezioni davvero. Alla fine Tito e gli alieni si fa vedere e suscita simpatia in chi è ben disposto. Ma attenzione ad alzare troppo le aspettative: non scommetteremmo, in questo senso, su un gradimento ampio in chi cerca non un’opera “panda” da sostenere, ma “solo” un bel film da apprezzare senza riserve.

Antonio Autieri