Un’inedita recensione a quattro mani per questo film tratto da un noto e apprezzato romanzo contemporaneo.
Ha il sapore di certi film di una volta e della vita vera l’ultima fatica di George Clooney, sceneggiatura del veterano William Monahan (The Departed) e impeccabile colonna sonora anni Settanta e Ottanta, ed è un film generoso con i suoi personaggi, grazie anche a una sfilza di ottime interpretazioni, tra cui brilla quella di Ben Affleck che, per il suo ruolo dello zio Charlie, barista filosofo e padre putativo, si meritava una candidatura all’Oscar (dopo quella ricevuta ai Golden Globes).
La storia è quella che lo stesso J.R. Moehringer , giornalista e scrittore (noto ai più per aver scritto insieme ad Agassi la sua biografia, Open), racconta nel suo memoir dallo stesso titolo, quella di un’infanzia sui generis, segnata da una figura paterna assente, ma piena dell’affetto di una famiglia non perfetta ma presentissima, sia quella di sangue che quella del bar del titolo, ma anche della scoperta di una vocazione e di un coming of age sentimentale fondamentale ma senza lieto fine.
Nella prima parte seguiamo JR, un nome che è una sigla il cui significato è il tormentone a cui il ragazzino (Daniel Ranieri) e poi l’adulto (Ty Sheridan) verranno continuamente sottoposti, andando avanti e indietro tra la sua infanzia confusa ma non infelice nella casa del burbero nonno (Christopher Lloyd, in gran forma), diviso tra la cura ansiosa della mamma (Lily Rabe) e gli insegnamenti dello zio Charlie, e la sua adolescenza, in attesa dell’ammissione alla prestigiosa università di Yale, simbolo di riscatto e della possibilità di un futuro migliore.
Sia da bambino che da giovane adulto, nonostante la montagna di amore ricevuto, JR deve fare i conti con la sensazione profonda di non essere abbastanza: non per la ragazza che ama, non per la vocazione di scrittore che sente, non per il mondo a cui aspira. Un’eredità ineluttabile dell’assenza paterna, di cui forse non riuscirà mai a liberarsi del tutto, ma di fronte a cui ha la scelta di lasciarsi definire e perdersi o di reagire riaffermando i suoi desideri.
La scrittura, consapevole dei topoi del racconto di maturazione, sfrutta bene anche numerosi sottili rimandi alla letteratura, cui JR è introdotto dallo zio (perché nello sport sarà sempre una schiappa): a partire da Dickens, che dà nome al bar del titolo: oltre al Grande Gatsby, esplicitamente citato, non possiamo non pensare ad alcuni dei giovani e sfortunati eroi dei suoi romanzi per la storia d’amore tra JR e la sua ricca compagna di studi.
The Tender Bar mette insieme tante cose e questo è uno di quei casi in cui lo spettatore, ormai forse un po’ drogato dai tempi ampi della serialità avrebbe amato avere più spazio per esplorare quello che qui, rispetto alla ricchezza della pagina scritta, resta a volte solo sullo sfondo, come la comunità che abita il Dickens.
Il bar non è solo il luogo dove vive suo zio, ma diventa fondamentale proprio per il suo percorso di formazione: è una seconda casa anche per Jr, è il posto dove si sente protetto, ma anche dove scappare quando le delusioni sono insopportabili, dove rifugiarsi quando le insicurezze o le frustrazioni prendono il sopravvento, quando la paura di fallire e il timore di non farcela lo attanagliano, il posto dove si nasconde quando non sa come andare avanti, un luogo che diventa quasi un alibi per non fare, per non andare avanti, oltre che il posto dove celebrare i successi. Come scrive lo stesso Moehringer nel suo memoir: «A volte il bar sembrava il miglior posto del mondo, altra volte sembrava il mondo stesso».
In un altro racconto, forse, zio Charlie, che vive nella casa del bar e non si allontana mai molto dal suo bar, e gli amici che gli fanno compagnia, sempre pronti a offrire da bere a suo nipote, sarebbero solo dei perdenti. Eppure sono loro le voci che nell’infanzia e nell’adolescenza di JR lo aiutano a colmare il vuoto per l’assenza di quella Voce (l’unico nome con cui conosciamo suo padre, dj alla radio). Non solo lo zio Charlie, ma una comunità di uomini imperfetti che tuttavia lo aiutano a diventare un uomo e che con un commovente slancio fanno convergere su di lui le loro speranza di una vita migliore.
Il film vive di questo inesausto senso di simpatia da parte del narratore (il protagonista ormai adulto) verso tutti i personaggi, uomini e donne privi di rancore verso la vita e verso gli altri per cui non sarebbe sbagliato scomodare il finale di Middlemarch citato in coda a La vita nascosta di Terence Malick: «ll crescente bene del mondo dipende in parte da atti non storici; e il fatto che le cose tra te e me non siano così malvage come avrebbero potuto essere, è in parte dovuto a coloro che hanno vissuto fedelmente una vita nascosta e riposano in tombe che nessuno visita».
Laura Cotta Ramosino e Marianna Ninni
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