1972. A duecento giorni dalla prova elettorale che avrebbe confermato o smentito la leadership del presidente Richard Nixon, si verifica nottetempo una pesante infrazione alla sede del Partito Democratico, presso l’ormai famosissimo hotel Watergate. Sarà l’inizio della fine del presidente Nixon, che si rivelerà poi essere il mandante dietro lo scandalo, pronto a giocare sporco pur di mantenere ben salde le proprie mani sulle alte sfere del potere. The Silent Man si incastra proprio in questa fitta trama, cercando di scavare ancora più a fondo nei meandri dei corridoi del potere americano, e portando alla luce l’altrettanto famosa figura di Mark Felt: vice-direttore dell’FBI fino alla morte di J. Edgar Hoover e papabile suo successore, viene messo da parte da un colpo di mano del presidente; Nixon colloca sulla poltrona del Federal Bureau Pat Gray, uomo legato a doppio filo con la Casa Bianca. Felt, classico “uomo del presidente”, è potente ma mosso da una forte integrità civile, e farà tutto il necessario per far crollare il castello di carte e disonestà costruito dietro la questione Watergate.

Dopo l’interessante Parkland, film in stile documentaristico sulle ultime ore di Kennedy dentro l’ospedale che tentò di salvarlo, il regista Peter Landesman torna con un altro film “presidenziale”. In questo caso ci troviamo però dalle parti di un dramma politico duro e puro, che esalterà gli appassionati del genere e che farà forse faticare tutti i non ferratissimi in materia di politica americana. Con l’imponente e statuario fisico dell’ottimo Liam Neeson, Landesman ci presenta una figura complessa, figlia di un’americanissima etica del lavoro e dotata di un’integrità quasi fuoriluogo nel mondo della politica dell’epoca. Eppure Felt è l’uomo chiave, temuto e rispettato perché custode dei pericolosi segreti della politica; la pellicola punta il tutto per tutto sull’approfondimento proprio di questo personaggio, da subito affascinante e inamovibile uomo pubblico, svelerà nel privato debolezze e rimpianti che lo renderanno più vicino ed empatico ad un pubblico alla ricerca dell’emozione drammatica. Affiancato dalla moglie (Diane Lane), con la quale condivide brevi e tormentati momenti di vita privata, Felt si muove come uno stratega silenzioso: una sceneggiatura talvolta fin troppo verbosa cerca di condensare concetti e informazioni – anche molto tecniche – dentro sguardi e momenti di alta tensione dialogica, non sempre perfettamente chiari ed efficaci. Misurate e ben costruite invece le dinamiche di doppiogiochismo, di detto e non detto all’interno delle claustrofobiche stanze del potere, che trovano sostegno in un azzeccatissimo cast collaterale (Marton Csokas,Michael C. Hall,Josh Lucas).

Se la storia già scritta ha tempi narrativi impegnativi ma coerenti, la parte dedicata al Felt meno noto al pubblico è segnata da una superficialità di fondo che impedisce all’elemento umano del film di venir fuori; i drammi e la quotidianità raccontata che volevano porsi come base e motivazione dell’agire civile del protagonista mancano di consistenza, e il troppo poco tempo dedicatogli inficia così la definitiva riuscita dell’opera. Piuttosto lineare e ben documentato sulla parte giornalistico-documentaria The Silent Man si assesta dunque sulla medietà dei film del genere; a conti fatti non ci si può però esimere dal rammarico per una storia di grande forza civile e morale, potenzialmente elevabile a capolavoro cinematografico stile Spielberg, e purtroppo limitata da qualche errore di scrittura e talvolta da un eccessivo didascalismo narrativo.

Maria Letizia Cilea