Siamo in periodo commemorativo. L'11 settembre è trascorso da poco quando sugli schermi arriva una nuova operazione cinematografica sulla vicenda. Ma se a raccontare il crollo delle Torri Gemelle si è accusati di patriottismo (come è accaduto recentemente a Oliver Stone per “World Trade Center”), quando si sceglie di mettere a tema l'odissea di quattro ragazzi pakistani finiti nella prigione di Guantanamo, allora si è degni di ricevere una menzione speciale a Berlino.,Proprio in questi giorni esce “The Road to Guantanamo”, un prodotto pensato per una diffusione televisiva che avendo ottenuto successo di critica e di pubblico ha trovato un suo spazio nelle sale cinematografiche. La storia è quella vera di quattro amici inglesi di origine pakistana che, in modo incauto, decidono di partire per la loro terra d'origine all'indomani dell'11 settembre per assistere al matrimonio di uno di loro. Non contenti di recarsi in un territorio surriscaldato, scelgono (e non si capisce bene per quale motivo) di attraversare il confine e andare in Afghanistan, dove sono presi in una retata e fatti prigionieri dai soldati inglesi e successivamente americani. Finiranno torturati e seviziati a Guatanamo, da cui riusciranno ad uscire –ritenuti innocenti- soltanto dopo tre anni.,Ad accompagnare il lancio del film troneggia la scritta: “Quello che sappiamo è che queste sono persone cattive”, firmato George W. Bush. Una frase che da sola chiarisce l'operazione sottesa ad un film che utilizza il linguaggio del documentario per ricattare lo sguardo dello spettatore. Alle interviste dei tre ragazzi, si mescola infatti la ricostruzione della loro disavventura e le riprese vere dei fatti avvenuti in quei giorni. Un modo per sottolineare in ogni istante che tutto è vero: sono vere le gabbie sotto il sole, sono vere le vessazioni subite, è vero il tempo trascorso in quel posto da degli innocenti. Ma dietro tutta questa rivendicazione della verità crolla l'insondabile mistero della vita, che qui è rattrappito dall'ideologico accanimento nel mostrare una spaccatura tra buoni (e rigorosamente innocenti, gli islamici) e cattivi (gli europei e gli americani, capaci soltanto di prendere a calci il Corano). Una tendenza troppo facile, con cui il regista inglese Michael Winterbottom, aiutato qui da Marc Whitecross, aveva già confezionato “Cose da questo mondo” che ottenne un immeritato plauso vincendo al Festival di Berlino.,In un momento storico già sufficientemente confuso e (mal) condizionato da malintesi, di questa “operazione verità” manicheista non si sentiva davvero bisogno.,Daniela Persico