The Program (id.)
Gran Bretagna 2015 – 103’
Genere: Biografico
Regia di: Stephen Frears
Cast principale: Ben Foster, Chris O’Dowd, Guillaume Canet, Lee Pace, Dustin Hoffman
Tematiche: sport, ciclismo, doping, menzogna, giornalismo, Tour de France
Target: da 14 anni

Ascesa e caduta di Lance Armstrong, campione di ciclismo vincitore di sette Tour de France e protagonista del più grande scandalo di doping del ciclismo mondiale…

Recensione

Straordinariamente accurato sul piano della ricostruzione sportiva (come riconosciuto anche da esperti del settore) ma per molti versi elusivo sul piano dell’approfondimento psicologico, l’ultimo biopic di Stephen Frears è un oggetto assai diverso da The Queen, accurato e sorprendente simpatetico ritratto di Elisabetta II d’Inghilterra sullo sfondo della settimana della morte di lady Diana, ma anche studio approfondito del rapporto tra media e potere.
Qui, al di là della performance straordinariamente mimetica di Ben Foster (che per entrare nella parte pare abbia addirittura provato su di sé alcune delle sostanze dopanti usate da Armstrong), il campione resta un oggetto opaco e ultimamente enigmatico. La decisione di iniziare a usare il doping per entrare veramente in competizione con il mondo del ciclismo professionale (dove la prassi era praticamente scontata, tanto che le sostanze venivano tranquillamente vendute in farmacia in Svizzera) viene presa da un giovane Lance senza alcuna esitazione. E, una volta superato lo scoglio pur tremendo della malattia (Armstrong sconfisse il cancro, diventando un simbolo), quello che cambia in lui è forse solo il livello di determinazione, non certo la caratura morale.
Il film decide consapevolmente di lasciare fuori dal suo spazio narrativo la vita familiare di Armstrong (l’incontro con la futura moglie e il matrimonio prendono un paio di scene e per il resto il protagonista sembra abitare una casa completamente vuota, mentre la madre è solo un ricordo motivante nelle interviste) mentre il rapporto con i malati di cancro, a favore dei quali Armstrong si attivò con una fondazione multimilionaria, è trattato assai rapidamente e soprattutto come parte di un culto destinato a sbriciolarsi.
Il film di Frears ha come base il libro Seven Deadly Sins del giornalista irlandese David Walsh, nel film portato in scena da Chris O’Dowd. Ma anche se la struttura della pellicola è in qualche modo inquadrata dalla sfida a distanza tra questo disarmato quanto testardo “detective” (inizialmente osteggiato oltre che da Armstrong stesso anche da una potente macchina mediatica) e la sua preda, ultimamente anche Walsh resta in scena troppo poco per catalizzare il pubblico. Se il personaggio del medico italiano Michele Ferrari, autore del “programma” di doping del titolo, resta quella di uno stregone senza scrupoli e senza rimorsi, più interessante, per quanto patetica e ambigua, è quella di Floyd Landis, prima gregario di Armstrong e poi vincitore dopo di lui del titolo al Tour de France, di cui fu subito privato per la scoperta degli aiuti chimici. Prima reticente inquisito, poi volonteroso collaboratore delle autorità, Landis, proveniente da una comunità Mennonita (una forma di cristianesimo anabattista molto esigente), non appare mai un vero e proprio contraltare morale verso lo spietato Lance, ma semmai una sua versione in minore in cui il riferimento religioso non fa che esasperare l’impressione di comoda ipocrisia delle sue scelte.
La parabola di Armstrong era stata oggetto pochi anni fa di un bel documentario di Alex Gibney (The Armstrong Lie), che ben aveva reso la dimensione mediatica dello scandalo che aveva ignominiosamente fatto crollare un modello costruito negli anni con tanto di mitologia, slogan e motivazioni; mito sostenuto, oltre che dalla “volontà di credere” e dalla immedesimazione di molti, anche da un ampio giro di interessi economici legati al ciclismo. Il film di Frears, perfetto nella sua ricostruzione, come opera di fiction soffre invece della sua asetticità e di una conclusione forse un po’ affrettata, in cui la ormai notoria intervista di Armostrong da Oprah Winfrey giunge non come il sospirato climax di un percorso morale per altro inesistente ma come una sorta di troppo elusiva parola fine a un dramma che si sarebbe immaginato (e certamente voluto) più profondo.

Laura Cotta Ramosino