Quando alla metà degli anni 60 il governo indonesiano fu rovesciato dai militari, il nuovo regime iniziò la repressione di tutti i “comunisti”: in realtà chiunque gli si opponesse. Morirono oltre un milione di persone, massacrate nei modi più abietti. Il merito di aver riaperto, con una forza non facilmente replicabile in un documentario, è del regista americano Joshua Oppenheimer che nel precedente The Act of Killing (nominato agli Oscar) riusciva non solo a far parlare a ruota libera i colpevoli dei massacri – che non hanno mai pagato per i loro atti, anzi hanno spesso ancora ruoli importanti in un regime ancora dispotico – ma, sempre facendo leva sull’incredibile vanità degli stessi (oltre che su un livello di coscienza vicino allo zero), anche a far mettere in scena gli eccidi utilizzando messinscene, recitazioni e diversi generi cinematografici… Ne veniva fuori un orrore grottesco e ancora più inquietante. Una visione non facile da sostenere, e con uno stile che può non convincere, ma sicuramente un documento prezioso.,Stavolta, con The Look of Silence, lo stile è più secco – anche se a tratti fin troppo, tanto da rischiare di annoiare – ma non meno angosciante. Premiato a Venezia 2014 con il Gran Premio della Giuria, il film sposta l’osservazione sul fratello di una delle vittime (nato dopo la sua esecuzione, alla fine di una lunga agonia crudele come tante altre) che, sfruttando il suo mestiere di oculista, va in giro – con la scusa di visite a domicilio per misurare la vista e per preparare occhiali: e la sua attività sembra una metafora per “aprire gli occhi” su quanto accaduto – a far domande a persone coinvolte negli omicidi a vario livello. Inframmezzate da interventi di massimi responsabili (agghiaccianti, come l’uomo che all’inizio ride raccontando di come strangolava o squartava le persone) che sembrano “code” del precedente lavoro – ma i due film sono stati preparati quasi in contemporanea – i vari incontri sortiscono solo deboli affermazioni e autodifese risibili (i comunisti erano da reprimere perché crudeli, senza Dio, si scambiavano le mogli…) o più spesso silenzi imbarazzati; ma senza alcun tipo di pentimento. Perché quell’uomo non cerca vendetta, ma verificare se c’è ancora umanità in quelle persone. E invece ottiene fastidio e irritazione, da chi si vede importunare da uno sfrontato molestatore. Spesso respinto con il monito di non riaprire inutilmente un libro ormai chiuso: «Se continuate a fare polemica sul passato, succederà di nuovo…». Mentre la conclusione di due assassini quasi fatalisti sulla storia del loro Paese fa correre un brivido lungo la schiena («così va la vita su questa terra…»).,Ci sono poche oasi di umanità in questo scenario impressionante: la figura della madre, che ricorda la dolorosa morte del figlio e si dedica devota alla cura dell’anziano marito; la mancata voglia di vendetta da parte di un sopravvissuto e la sua preghiera che affida a Dio le vittime di tanta violenza; e l’unico incontro in cui, alla fine, una richiesta di perdono arriva, anche se solo dalla figlia di un assassino (con commosso abbraccio). Ma dal lungo e quasi insostenibile viaggio nell’orrore indonesiano – alcuni dettagli dei massacri sono raccapriccianti, come l’abitudine di bere il sangue degli uccisi “per non diventare pazzi” – si esce con l’impressione che manchi qualcosa a un lavoro pure importante in grado di far scoprire una realtà a noi lontana fatta di crudeltà (le evirazioni, le decapitazioni, le teste delle vittime per spaventare qualcuno) e di silenzi omertosi; nonché a documentare cosa può diventare l’uomo abbandonato ai propri istinti bestiali. E che però rischia di risultare un pugno nello stomaco fine a se stesso. Cosa manca, allora? Un perdono vero, figlio di uno sguardo sull’uomo e sulla storia che qui è del tutto assente. Come se l’umanità fosse ancora allo stato ferino, ancora in attesa di una redenzione e di un riscatto dal proprio stato animale. E che la volontà di poche persone “buone” serva a poco di fronte a tali scempi.,Antonio Autieri,