Non bastano due grandi attori per render grande un film. Ne è chiaro esempio “The King”, opera prima di un pur coraggioso James Marsh. Perché tutto il film è costruito sul dialogo cinematografico tra due grandi presenze attoriali, come il giovane talento Gael Garcia Bernal e l’affermato William Hurt. Il primo, figlio di una relazione fugace di un pastore battista (Hurt), morta la madre va alla ricerca di un padre che non ha mai visto. Ma di grande ostacolo troverà la nuova vita integerrima costruitasi dal pastore all’interno della propria comunità, ma soprattutto la nuova famiglia di questi, che Hurt vorrà tenere (per una certa parte della pellicola) totalmente estranea dal figlio di primo letto, portandolo alle estreme conseguenze.,Marsh ripropone, portandolo alle estreme conseguenze, il tema del disgregamento della famiglia e della conflittualità padre/figlio, cadendo nel trabocchetto del “già visto”. Il film infatti, come già accennato, si basa interamente sulla performance dei due grandi interpreti, non riuscendo a focalizzare un suo preciso stile estetico né narrativo. Oltretutto spinge alle estreme conseguenze gli sviluppi della storia, rappresentando scene di vero e proprio incesto e concludendo il tutto con un vero e proprio lago di sangue.,Latore di una morte covata lucidamente per anni, il personaggio di Gael Garcia Bernal è il fulcro di un film che dipinge un’impossibilità comunicativa che si esalta quando una certa quotidianità di rapporti sembra (forzatamente) rinata, in una dinamica di rapporti che non può non sembrare falsa. Non si sentiva veramente la necessità di una tale brutalità per descrivere una dinamica del genere, anche perché la cinematografia recente presenta ormai una quantità notevole (e migliore) di esempi.,Peccato, perché la pellicola lascia intravedere nelle sue corde ottime potenzialità, che vengono sperperate in una banalità di messa in scena e in una forzatura situazionista che lascia infastiditi.,Pietro Salvatori,