L’attesissimo ritorno di Martin Scorsese con The Irishman è un evento cinematografico che lascerà il segno. Per l’imponenza dell’operazione (3 ore e mezza di film che si lasciano vedere senza annoiare, non è chiaro l’effetto che farà con lo streaming domestico di Netflix che lo ha prodotto…), per l’eccezionalità del cast portato sullo schermo (Robert De Niro e Al Pacino – per la prima volta per Scorsese – ma anche e verrebbe da dire soprattutto Joe Pesci, oltre ad Harvey Keitel), per la sfida anche visiva (la tecnica per ringiovanire i protagonisti sullo schermo, che chi scrive ha in realtà trovato vagamente straniante), per le polemiche sulla distribuzione.
Ma The Irishman (scritto da Steve Zaillian adattando il volume di Charles Brandt) è prima di tutto la summa del cinema di Scorsese, delle sue ambizioni (tornare alle sue “storie di gangster”, in questo caso al caso Jimmy Hoffa), dei suoi “capricci” (lavorare con attori suoi amici, anche a costo di forzarne la credibilità su 50 anni di storia).
La vicenda di Frank Sheeran (veterano, autista d’autobus, poi killer per la mafia e sindacalista) è una storia che Scorsese racconta dalla fine (nella casa di riposo dove Frank è rimasto l’unico “sopravvissuto” di un mondo ormai finito), davanti a un prete, ma senza cercare assoluzioni per il suo protagonista. Un uomo che naviga nel mondo degli “italiani” senza farne davvero parte, stringe rapporti di lealtà autentici, ma alla fine è capace di fare scelte spietate, anche se gli costeranno la famiglia. La bravura di Scorsese è tutta nel far emergere ogni carattere, quella dei suoi attori nell’evitare (quasi sempre) di far prevalere la propria “persona” sul personaggio.
Più che un gangster movie The Irishman è il racconto malinconico di una vita spesa facendo compromessi sempre più gravi (dal furtarello sul carico di carne all’intimidazione, fino a passare a lavoro da sicario, curiosamente e disinvoltamente alternato a quello di sindacalista) in nome di un guadagno che tutto sommato è aleatorio. Il nostro Frank non è uno che ami sfoggiare la ricchezza, apprezza forse più la stima dei suoi “datori di lavoro”. Al contrario questo percorso di quieta adesione al codice della malavita è quello che lo allontana dalla famiglia (prima il divorzio, poi lo sguardo sempre più inquieto della figlia, con cui non riuscirà mai a fare pace).
Scorsese naturalmente non dà giudizi, ma l’immagine crepuscolare dei boss rinchiusi in prigione e poi quella di Frank alle prese con funerali e solitarie memorie (che non gli permettono comunque di far pace con sé stesso) vale come epitaffio di un mondo che Scorsese ha voluto raccontare forse per l’ultima volta con un sigillo di maestosa decadenza.
Il risultato è una saga malinconica, spietata, ipertrofica, che proprio per questo bisognerebbe davvero vedere sul grande schermo sfruttando i pochi giorni che Netflix concede (dal 4 al 6 novembre) prima di darla in pasto all’autogestione dello streaming.
Luisa Cotta Ramosino