Bel melodramma tutto al femminile retto da interpreti bravissime sia tra le bianche (Emma Stone, Bryce Dallas Howard in un ruolo complicato, Sissy Spacek, Jessica Chastain), sia tra le nere (Viola Davis e Octavia Spencer). La forza del film non sta nello stile visivo del regista attore Tate Taylor, che riprende in modo pedissequo i colori saturi dei melodrammi degli anni '60 e dei loro rifacimenti recenti (Lontano dal Paradiso, tra gli altri). Il nucleo emotivo sta invece nella storia “forte” e nell'efficacia delle interpretazioni del cast, molto vero e molto intenso. All'origine della vicenda c'è il romanzo omonimo di Kathryn Sockett che racconta da un punto di vista esterno le vicende di ordinaria oppressione di alcune domestiche nere nell'America non più schiavista ma ancora razzista negli anni 60. Taylor, anche sceneggiatore, imbastisce una narrazione semplice, presentando personaggi ben riconoscibili ma non rinunciando a sfumature. Così, se la Stone è la voce guida del film e il punto di vista dello spettatore coincide totalmente con il suo sguardo, quando si entra nelle linde case dei bianchi o nelle bettole dei neri, il discorso si fa complesso. Il razzismo latente e più spesso esibito della buona borghesia è incarnato dal personaggio odioso di Bryce Dallas Howard ma esistono le sfumature di alcuni personaggi e di un ambiente difficile e contraddittorio: le condizioni delle donne nere oppresse dai mariti in casa spesso più violenti dei bianchi; la solitudine delle donne bianche costrette dalle convenzioni sociali a un matrimonio che non sembra dare soddisfazioni e in cui gli uomini sono assenti; una solidarietà che stenta a affermarsi per timore di ritorsioni o per semplice egoismo e tornaconto personale. Inoltre – ed è l'aspetto più interessante e originale del film – la contraddizione della condizione delle domestiche nere, spesso costrette a fare da balia ai bambini delle bianche ma affezionate sinceramente a questi bimbi che vedranno crescere e maturare grazie al loro affetto. Non mancano i difetti: qualche lungaggine nella fase centrale, una regia pulita ma visivamente non molto interessante, il personaggio della Chastain sin troppo sopra le righe, la tentazione di accumulare troppo materiale (personaggi, storie collaterali) senza che si riesca a dire tutto bene, qualche concessione alla retorica. Il cuore del film, che cinematograficamente è molto debitore a Il colore viola di Steven Spielberg è però un altro: il tentativo di raccontare un universo femminile a tutto tondo a partire non da slogan stantii ma da esigenze concrete: il bagno per le domestiche che diventa il casus belli per tutta la vicenda; uno stipendio onorevole, una casa dignitosa, la possibilità di un'amicizia oltre la razza e il rango sociale, la necessità di un aiuto, l'aiuto del titolo, per una felicità possibile e inattesa.,Simone Fortunato