L’americano Phineas Taylor Barnum (Hugh Jackman), figlio di un modesto sarto, riesce a sposare la figlia del ricco datore di lavoro del padre, Charity (Michelle Williams), e a creare dal nulla, nel corso dell’Ottocento, uno dei fenomeni di intrattenimento più celebri della storia. Conosciuto come “Il più grande spettacolo del mondo” o più semplicemente Circo Barnum (definizione diventata ormai proverbiale), la creatura del circense americano è stata il prototipo del circo del XIX e XX secolo, ma anche uno dei primi esempi dell’intrattenimento di massa moderno (e della sua relativa pubblicizzazione), capace di sfruttare l’attrazione delle persone per l’esotico, il grottesco e il macabro o per qualcosa di irrimediabilmente falso, ma presentato in modo da apparire veritiero (un po’ di tutto quello che è alla base del successo dei reality show odierni). Lo spettacolo di Barnum deve molta della sua fama all’aver sfruttato sistematicamente sulla scena i cosiddetti “fenomeni da baraccone” (freak show), persone o animali dall’aspetto insolito, malforme, spesso veri e propri disabili, aspetto che gli ha attirato un gran numero di critiche, presentandoli come individui da “Guinness dei primati”, che in realtà non erano nonostante le evidenti anomalie e particolarità.
Sia chiaro, The Greatest Showman non è la fedele trasposizione su schermo della vicenda storica di P.T. Barnum, ma un musical con una sceneggiatura ampliamente modificata ed edulcorata rispetto alla vera vita del protagonista. Dal film rischia di passare un’immagine di Barnum come quella di chi ha dato la possibilità a persone disabili o discriminate di riscattarsi attraverso il circo («riderebbero comunque di voi, meglio farlo essendo pagati», dice il circense a un nano che diventerà una delle attrazioni principali dello show), mentre verosimilmente e in ultima istanza era solo una persona che voleva fare soldi, ed era disposto anche a sfruttare le menomazioni e le sfortune altrui per raggiungere il suo obiettivo. La frase «è un mondo immaginario in cu tu sei straordinario», ritornello di una delle canzoni cantate da Jackman, rivolta alle sue “attrazioni”, è sicuramente bella e ad effetto, ma nasconde un’ipocrisia di fondo, perché per Barnum quelle persone non erano di certo straordinarie in quanto persone con una dignità, ma straordinarie perché gli facevano guadagnare un bel po’ di dollari.
Nonostante ciò, se si prende la pellicola come semplicemente ispirata alla figura di Barnum, si ha sicuramente davanti un ottimo lavoro. Un musical moderno e abbastanza canonico nell’impostazione, ma con musiche e coreografie di pregevole fattura. Basti pensare che le musiche sono state composte dall’affermato John Debney (Oscar per La passione di Cristo) e scritte da Justin Paul e Benj Pasek, già autori dei testi di La La Land. Le canzoni sono emozionanti, con testi molto semplici e belli allo stesso tempo, soprattutto “The Greatest Show”, “A Milion Dreams” e “Never Enough” e “Rewrite The Stars”, e riescono a portare riflessioni su temi come la diversità e il desiderio di felicità senza scadere nella banalità.
Le prestazioni attoriali e canore degli attori principali sono di alto livello, dal protagonista Hugh Jackman (già grande interprete del musical Les Miserables) a Michelle Williams e Zac Efron (particolarmente degno di nota). Menzione a parte va alla splendida Rebecca Ferguson nei panni della famosa Jenny Lind, soprano lirico nota come l’”usignolo svedese”, già all’apice della sua carriera in Europa quando Barnum la conosce e la convince a girare gli Stati Uniti in un tour diventato leggendario (tenendo conto che praticamente nessuno la conosceva in America). Toccante il dialogo in cui Barnum tenta di convincere la Lind: «La gente viene al mio spettacolo per il gusto di essere abbindolata. Per una volta vorrei dargli qualcosa di vero».
Piccola curiosità: dopo 146 anni, il Circo Barnum, o ciò che ne rimaneva, ha chiuso i battenti proprio nel 2017, a maggio.
Alessandro Giuntini