I fratelli Anthony e Joe Russo reduci dai tanti successi Marvel (da Captain America The Winter soldier agli ultimi Avengers) provano a inaugurare un franchise spionistico e d’azione per Netflix e lo fanno in grande stile (budget pare sopra i 200 milioni di dollari) grazie anche a un cast di tutto rispetto.
Protagonista Ryan Gosling nei panni di un personaggio potenzialmente intrigante: ex carcerato (ma per un delitto “onesto”: ha eliminato il padre violento che avrebbe fatto fuori il fratellino), ingaggiato in una branca “collaterale” della Cia dal misterioso Fitzroy (Billy Bob Thornton) per diventare l’assassino capace di arrivare dove gli altri non riescono o non possono per ragioni politiche. Nome in codice Six (perché “007 era già occupato” come dice lui stesso in un’ironica battuta alla figlia del suo mentore), il nostro per 18 anni ha svolto egregiamente le sue missioni, ma un giorno scopre che il suo obiettivo è un collega e nelle sue mani si ritrova una chiavetta con tutti i panni sporchi di pezzi grossi dell’agenzia (un classico McGuffin che resta vago quel tanto necessario a far ipotizzare un sequel), e all’improvviso l’obiettivo diventa lui.
Sulle sue tracce viene messo un altro ex agente, Lloyd Hansen: Chris Evans, pure lui un reduce Marvel, che, evidentemente deciso a farci dimenticare il suo Captain America tutto d’un pezzo, gigioneggia nel ruolo di un cattivo psicopatico senza remissione, che per acchiappare Six e recuperare la chiavetta distrugge mezza Praga (i governi stranieri sono stranamente latitanti in questa storia) e sparge cadaveri ovunque, mentre l’agente Brewer (Jessica Henwick), spedita a controllarlo periodicamente si lamenta come una babysitter poco accorta.
A completare il cast ci sono Ana de Armas (che aveva già dimostrato di cavarsela come agente nell’ultimo James Bond, ma che qui ha più materiale per farsi valere) e il francamente scialbo Regé-Jean Page, più credibile oggetto del desiderio in un guilty pleasure come Bridgerton che come grande antagonista in un film d’azione. Anche Wagner Moura, già eccellente Pablo Escobar nella serie Netflix Narcos, fa qui una comparsata tra i molti delinquenti impegnati a mettere Six nelle mani dei suoi nemici.
Six si inserisce nella lunga tradizione di agenti con licenza di uccidere, apparentemente macchine letali che però nascondono un cuore tenero (qui a farlo emergere è la nipote cardiopatica di Fitzroy, che gli viene affidata dal suo mentore) e una morale più forte di quella dei loro superiori. I mezzi dispiegati sono grandiosi: dalle scene di azione a Bangkok con cui si apre il film all’inseguimento e alla sparatoria nel cuore di Praga, fino allo scontro finale in un castello in Croazia (che sembra trasportato in volo dalla valle della Loira).
La sensazione generale, però, al di là del volonteroso impegno degli interpreti, che hanno tutti dato il meglio di sé altrove, è di un’operazione un po’ a tavolino, un giocattolone con grandi effetti, ma senza un’anima vera.
Sarà che le operazioni canaglia per cui Six sta rischiando la vita restano volutamente vaghe, e il contesto in cui i nostri si muovono appare altrettanto poco definito, sta di fatto che non c’è mai un momento in cui il pubblico si appassioni fino in fondo a quello che sta succedendo. E così il senso di meraviglia di fronte alle tante invenzioni spettacolari è accompagnato da una certa insoddisfazione e dal dubbio che ne valesse davvero la pena. Forse a quest’ultima domanda potrà rispondere il sequel che il finale aperto lascia intravvedere, e allora l’espressione indecifrabile di Six forse ci aprirà altri mondi e darà un senso più profondo a questo enorme dispendio di denaro ed energie.
Laura Cotta Ramosino
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