Sul finire del secondo mandato di Ronald Reagan, Gary Hart è l’uomo di punta del partito democratico in corsa alle elezioni presidenziali. Uomo semplice e riservato, sembra essere il nuovo volto di una politica americana che senza compromessi e vetrine elettorali è capace di andare dritta al cuore e ai bisogni della nazione. Quando nella primavera del 1987 Hart inizia il suo tour elettorale in giro per il paese ha alle sue spalle una famiglia e un solido staff a supporto; i 12 punti di vantaggio nei sondaggi sembrano promettere una cavalcata verso la vittoria, ma uno scandalo sessuale tirato fuori dal Miami Herald darà inizio a 3 settimane di vessazioni e pettegolezzi che lo porteranno a rinunciare alla candidatura.

Dopo Tully, bella commedia sulla maternità, Jason Reitman torna dietro la macchina da presa con un film politico sotto tutti i punti di vista. Il suo The Front Runner è infatti innanzitutto un solido political drama, incastonato all’interno di un genere cinematografico molto produttivo nel panorama hollywoodiano, che spesso nel passato ha puntato – perdendo, nella maggior parte dei casi – su una retorica del patriottismo un po’ stantia e forzata. Reitman però non è solito seguire i sentieri già tracciati, e per fortuna anche qui la deviazione – così come in Tully – risulta vincente: il film gioca infatti sugli stereotipi tipici del dramma politico, facendoci attraversare tutte le fasi dell’ascesa del personaggio del momento, dall’annuncio della candidatura alla costruzione della propria immagine politica, passando per le famose scene di riunione con il proprio staff innaffiate da caffè e ciambelle. Fiumi di parole e promesse elettorali scorrono da una scena all’altra in modo efficace, grazie ad un cast collaterale ben calibrato e al volto rassicurante e sincero del bravissimo Hugh Jackman. Calma e pazienza sembrano contraddistinguere questo leader carismatico e animato da un forte spirito di sacrificio, finché tra una tappa e l’altra non ci si accorge che la costruzione quasi agiografica del personaggio non cozza con il mondo del giornalismo politico e d’inchiesta, che orbita intorno a personaggi di spicco del settore e ne influenza destino e immagine. Lo sciacallaggio giornalistico è lì ad un passo, e se nel passato Kennedy poteva permettersi di tenere le sue scappatelle chiuse a chiave nella camera da letto, un nuovo giornalismo e un nuovo potere mediatico giocano secondo le proprie sporchissime regole, infilando naso e obiettivi fotografici fin sotto le lenzuola. Una fotografia in compagnia di una misteriosa donna (l’attrice Donna Rice) basta a scatenare la gogna pubblica e a mettere in discussione l’affidabilità politica e morale del potenziale futuro presidente.

Reitman è abilissimo nel mettere in scena un’idealizzazione politica che crolla sotto i colpi bassi di un giornalismo alla ricerca sfrenata del pettegolezzo e dello scandalo, sorprendendo il diretto interessato prima di tutti, convinto – e rassicurato dai sondaggi – che al 64% degli americani non interessasse la vita privata di un politico. Così il granitico Hart ci appare di colpo goffo e fragile nella sua mancanza di lungimiranza: nella sconfitta egli torna tra i comuni mortali, permettendo per la prima volta allo spettatore di empatizzare con un’umanità fin lì nascosta dalle patinature dell’immagine pubblica. La freddezza della narrazione e il voluto distacco dalla componente psicologica sono forse l’unico vero limite del film di Reitman, che nel tentare di narrare i fatti con oggettività dimentica di farci conoscere a fondo il leader per il quale lo spettatore non può fare a meno di parteggiare. La ricaduta politica di The Front Runner non sta dunque nei suoi contenuti, quanto nella capacità di individuare una crisi culturale che ha conseguenze pesantissime sulla nostra contemporaneità: quella crisi che ha portato la vita del politico a sostituire l’ideale e l’azione politica, diventandone unica consistenza.

Maria Letizia Cilea