Come si può desumere dalle auto e dai disegni della carta da parati, The French Dispatch è ambientato negli anni 60; gli edifici e gli spazi risentono dell’influenza dei film con Monsieur Hulot del grande Jacques Tati. Nel prologo, una narratrice (in originale, Anjelica Huston) ci introduce eloquentemente ai vari personaggi che svolgono i rispettivi compiti tra le pareti dell’edificio labirintico ma angusto del giornale, quasi tutti interpretati da attori presenti in altri film di Wes Anderson. Al centro dell’organizzazione c’è il suo direttore, Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray), che ha iniziato la piccola pubblicazione di espatriati come sfogo del giornale di suo padre a Liberty, Kansas.
The French Dispatch è un caratteristico esempio dello stile di Anderson, con narrazioni che si ramificano e tanto amore per la cultura di metà Novecento. Anche questo film, come i precedenti, è accuratamente dettagliato: incorpora storie all’interno di articoli di giornale, conferenze e interviste televisive, animazioni e testi, in una sorte di ode a una modalità di giornalismo ormai scomparsa con il declino della carta stampata. Intrecciando diverse vignette che illustrano le storie del giornale con sede nella immaginaria cittadina francese, umoristicamente chiamata Ennui-sur-Blasé (Noia sullo Stanco), il film fa molto per mostrare ciò che potrebbe essere stata una certa cultura ricca di fantasia e portata ai suoi limiti.
Con l’aiuto della narrazione fuori campo e delle illustrazioni incorniciate con precisione, Anderson come suo solito crea intermezzi nella sequenza temporale della trama, deviando su tangenti strabordanti informazioni su personaggi secondari, prima di tornare alla storia in corso; tuttavia non vediamo molto di questi personaggi, poiché la maggior parte del tempo sullo schermo è dedicata alle storie di tre dei giornalisti più famosi del giornale.
La cronista di arte J.K.L. Berensen (Tilda Swinton), con una dentiera gigante e una parrucca rosso acceso, racconta la storia di Moses Rosenthaler (Benicio del Toro), un artista astratto rinchiuso nella prigione locale per un duplice omicidio. Lucinda Krementz (Frances McDormand), una anziana radicale con una nascosta vena vulnerabile, scrive della locale rivolta studentesca guidata da un giovane appassionato di nome Zeffirelli (Timothée Chalamet). E l’erudito Roebuck Wright (Jeffrey Wright) racconta di un famoso chef (Stephen Park) che viene coinvolto in un complotto di rapimento e in uno scontro tra la polizia e la criminalità locale il cui leader senza nome è interpretato da Edward Norton.
Questi cortometraggi relativamente autonomi, rendono omaggio all’intellettuale casualmente serio della metà del secolo, coi vestiti comodi, le sigarette penzolanti e l’approccio alla vita tra il rigoroso e il sarcastico. Il regista utilizza espedienti stilistici espliciti per delineare i livelli di narrazione – le conferenze e le interviste che inquadrano le storie sono a colori, ma le storie stesse sono in bianco e nero – solo per mescolare disordinatamente questi stili per un capriccio espressivo. A un certo punto The French Dispatch torna al colore per mostrarci gli straordinari occhi azzurri di Saoirse Ronan mentre il suo personaggio di showgirl sbircia attraverso una fessura per la posta. In un altro, passa bruscamente all’animazione per una scena d’azione ricca della tensione di un film noir.
The French Dispatch è un esercizio spesso affascinante e meraviglioso di narrazione complessa e composizione visiva, ma non è sempre facile condividere i sentimenti di un regista (e scrittore), che in questo formato antologico rende difficile tracciare connessioni emotive, piuttosto che puramente intellettuali, tra gli elementi dello staff del giornale. Non aiuta il fatto che il film sia così pieno di talenti riconoscibili con parti così piccole da diventare una fonte di distrazione, tanto che il sentimento necessario per cogliere davvero la conclusione rischia di venir sepolto sotto tutti i cammei e l’estro stilistico (anche la colonna sonora a un certo punto richiama la musica barocca di Effetto notte di François Truffaut). Un epilogo malinconico che rende evidente il genuino rimpianto di Anderson per la scomparsa di un certo tipo di affascinante reportage letterario.
Beppe Musicco
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