Si chiama Claudio Verona, il giovane uomo d’affari sicuro di sé e dai modi sprezzanti che si avvia in auto verso la sua azienda. In ufficio la segretaria lo attende con un ospite, per chiudere un accordo importante: ma mentre sale in ascensore, un guasto lo blocca al suo interno. E le sue impazienti richieste di intervento tecnico si infrangono in un’attesa surreale. Poi in confuse urla: là fuori cosa sta accadendo? Quel “qualcosa” arriva presto a pochi passi da lui: un misterioso virus fa impazzire le persone e le trasforma in esseri violenti e bestiali. Paradossalmente, chiuso in ascensore, è abbastanza al sicuro… Ma fino a quando?

Il giovane regista esordiente Daniele Misischia, già “aiuto” dei Manetti Bros. si fa produrre dai due fratelli di Ammore e malavita (e da Rai Cinema) questo horror low budget con Alessandro Roja (che era il protagonista del loro Song’ e Napule), già passato in alcuni festival. L’idea di The End? L’inferno fuori, girato quasi tutto in un ascensore, ricorda un po’ un altro film dei Manetti, l’apprezzabile Piano 17, thriller con tre persone chiuse in uno spazio chiuso e con tensione crescente. Anche qui la tensione non manca, e Roja – che fa il suo dovere egregiamente – davvero porta sulle sue spalle quasi da solo tutta la storia, ma il plot è molto più semplice e schematico e i pochi personaggi risultano stereotipati (l’uomo arrogante e cinico, l’amante delusa, la moglie tradita fragile e inconsapevole…), e ci sono echi di tanti film di genere e b-movie simili, con la sola differenza della location. Quanto all’economia dell’operazione – legittima e comprensibile – si vede non solo nel cast ridotto all’osso ma anche nei “trucchi” su mostri più grotteschi che spaventosi.

Il tentativo è comunque interessante, anche perché di horror se ne fanno pochi in Italia e in genere di scarsissime ambizioni. A Claudio arrivano sul cellulare voci, immagini, invocazioni dall’esterno, un esterno fatto di persone a lui vicine (la moglie, che pure ha tradito e di cui sembra interessarsi solo ora) o di sconosciuti, che possono anche diventare importanti in tale momento di necessità, come avviene con il poliziotto (anche qui, si potrebbero riscontrare citazioni o memorie da altri film). Ma quando ci si aspetterebbe una chiusura con un guizzo, la conclusione lascia un po’ insoddisfatti, tra dialoghi e confessioni ponderosamente inefficaci e un finale tirato per le lunghe. Se ci aggiungiamo un titolo fin troppo originale ma non particolarmente attrattivo, ne risulta un decoroso esperimento che rischia di rimanere tale.

Antonio Autieri