Esce totalmente in sordina su qualche piattaforma, e ora anche nei cinema, un anno e mezzo dopo il suo passaggio in concorso alla 76a Mostra di Venezia 2019,  Sull’infinitezza. Un film diretto dal 77enne svedese Roy Andersson che pochi anni fa proprio a Venezia ebbe la sua tardiva consacrazione vincendo il Leone d’oro con Un piccione riflette seduto su un ramo riflette sull’esistenza che estasiò parecchi al Lido ma non chi scrive (anzi…). Un film che mostrava una lunga serie di brevi quadri su vicende contemporanee o del passato, ma tutte segnate dall’assurdità e mostrate con cinico sarcasmo (tipo: un uomo muore in un bar e gli altri avventori si fanno avanti per il panino e la birra che aveva appena pagato).

Sulla falsariga del suo film più noto, anche il nuovo ci mostra – con l’accompagnamento di una voce fuori campo che spesso anticipa quello che vedremo – una teoria di personaggi anonimi, di cui non sappiamo nulla, alle prese con vicende surreali, patetiche, disperanti o tragiche: il prete che ha perso la fede e cerca da un medico la soluzione al suo dramma, un padre che ha ucciso la figlia per salvare l’onore della famiglia ma se n’è pentito, un vecchio avvilito dal fatto che un antico compagno di scuola faccia finta di non riconoscerlo, un uomo su un autobus che piange perché non sa cosa vuole, un marito geloso che schiaffeggia la moglie in pubblico. E poi storielle minime che vorrebbero essere buffe o allegre (ma con poca leggerezza, a parte tre ragazze che ballano per strada) ma che spesso sono angoscianti o irritanti, con qualche excursus storico (si vede Hitler).

Ma più di tutto lo è lo sguardo del narratore che quasi mai ci mostra i volti delle persone (mai un primo piano, quasi a negare identità a persone – riprese obliquamente – che sono minuscole nell’assurda storia del mondo) e che a suo dire voleva «sottolineare la bellezza di essere vivi e umani» attraverso contrasti e rivelando anche il lato peggiore di un’esistenza di cui si mostrerebbe «l’infinità dei segni». A noi pare uno sfoggio di nichilismo ilare che ci rattrista profondamente, in cui non c’è un grammo di pietà per il dolore umano né tanto meno di bellezza (nonostante l’ultima scena, in cui un uomo sostiene – nell’indifferenza generale e con un tono poco convincente – la bellezza delle cose). Il pregio maggiore: dura solo 76’, crediti compresi.

Antonio Autieri