Roma, novembre 2011. L’on. Filippo Malgradi (Pierfrancesco Favino), deputato del parlamento italiano, passa una notte brava in compagnia delle due escort Sabrina (Giulia Elettra Goretti) ed Elena. Durante il festino quest’ultima perde la vita a causa di un’overdose. Per sbarazzarsi del cadavere e coprire lo scandalo, Malgradi si affida in fretta e furia all’aiuto di un piccolo criminale amico di Sabrina. Questi, riconosciuto il politico, lo ricatta. Per tutta risposta il deputato ricorre alle conoscenze malavitose di un collega perché la questione si risolva. Ma questo regolamento di conti non va a genio a “Samurai” (Claudio Amendola), criminale di lungo corso e rispettato da tutta la malavita romana, con cui l’onorevole ha in ballo un “grande progetto” legato alla speculazione edilizia nelle periferie della Capitale. Il delinquentello fatto fuori per ordine del politico è infatti membro di una famiglia di usurai e criminali zingari con la quale Samurai tentava di mantenere un difficile equilibrio di pace. La storia si sviluppa portando a galla un intreccio di malaffare che coinvolge la malavita romana, la politica e perfino il Vaticano. Un conto alla rovescia fino al Giorno dell’Apocalisse accompagna il pubblico attraverso i diversi capitoli della vicenda.
Chi, dando retta al passaparola di turno, si aspetta un film legato al caso “Mafia Capitale” rimarrà deluso. In realtà Suburra è tratto dall’omonimo romanzo del giornalista Carlo Bonini e del magistrato Giancarlo De Cataldo, pubblicato un anno e mezzo prima dello scandalo romano e da molti per questo indicato come libro profetico. E se il romanzo possiede una certa efficacia narrativa, altrettanto non si può dire, purtroppo, del film di Stefano Sollima. La colpa è quasi tutta attribuibile a una sceneggiatura decisamente sfilacciata, che impiega una buona mezz’ora prima di decollare e dotare di senso narrativo il lungometraggio. I personaggi, sebbene molto ben interpretati, hanno poco spessore e molti accenni a presunti risvolti scandalosi (vedasi Vaticano) rimangono sospesi e irrisolti. L’idea che suscitano è quella di esser messi lì per attizzare una sensazione pruriginosa piuttosto che per raccontare una vera e propria storia.
D’altra parte Sollima si conferma un ottimo regista, forse il miglior regista italiano per quanto riguarda le scene d’azione, capace, com’è, di rappresentare sparatorie senza quella polvere sul soprabito “à la Ispettore Derrick” che ammorba la stragrande maggioranza dei film europei (americani e orientali in questo campo ci sono di gran lunga superiori). Sono numerose le sequenze e le scene memorabili (fra tutte forse la più bella è l’inseguimento nel centro commerciale), per di più accompagnate da una bellissima colonna sonora (“Hurry Up, We’re Dreaming” del gruppo M83).
Viene quindi da chiedersi se valga davvero la pena, ogniqualvolta ci si accinga a realizzare una crime story italiana, cedere alla retorica che accompagna il nostro clima culturale da decenni. Politici corrotti che “se ne fregano” dei magistrati, vescovi affaristi, poveri proletari che ci rimettono e basta, e quant’altro. Certo, tutte queste realtà, purtroppo, esistono. Ma un conto è la realizzazione di un film di inchiesta o di denuncia, un altro è pretendere di inserire troppi temi in una pellicola che ha pretese più da gangster movie o da noir. Il rischio è quello di creare un minestrone farcito, se va bene, di belle immagini. Di talenti come quello di Sollima in Italia ce ne sono pochi. Meglio si dedichino a sceneggiature un po’ più solide.
Raffaele Castagna