Alessandro Pes, sceneggiatore famoso, affascinante e cialtrone, non scrive più una riga da anni ma si fa scrivere – di nascosto, a pagamento – i celebrati script da Valeria, la segretaria della casa di produzione per cui lui “lavora” e che gli fa da ghost writer. Ma a lei va bene così: per carattere, non ha alcuna intenzione di far venire alla luce il suo talento (sfruttato). Quando Pes è metto sotto pressione dalla casa cinematografica, che ha fretta di mettere in piedi un film di successo, a Valeria arriva un copione quasi completo Da un anziano sconosciuto. L’uomo, con fare misterioso, sembra sapere molte cose e racconta alla donna la storia di un omicidio di un critico d’arte, collegata alla sparizione di un’opera di Caravaggio (“La natività”) rubata a Palermo dalla mafia 50 anni fa. E mai più ritrovata, mentre le voci sul destino dell’opera (è stato brutalmente distrutto? Viene conservato gelosamente da qualche padrino?) non sono mai cessate. Un bello spunto per la storia, che manca solo del finale. Ma quando la sceneggiatura dovrebbe diventare un film – intitolato Una storia senza nome – diretto da un grande regista straniero, i mafiosi iniziano ad agitarsi…

Lo spunto del furto del dipinto è tristemente vero, il resto è frutto della fantasia di Roberto Andò, che all’inizio sembra ritrovare in parte la verve e l’inventiva del suo Viva la libertà. Ma se la sua regia ha una certa eleganza e gli attori, pur lasciati un po’ a briglia sciolta, si impegnano, purtroppo è sempre la sceneggiatura il punto debole dei suoi film. Passato fuori concorso alla Mostra di Venezia 2018, Una storia senza nome – che sfida lo scarso interesse riscosso in genere in Italia dai film sul cinema – è un giallo con abbondanti toni da commedia (seppur con omicidi e pestaggi), in cui Valeria si troverà a correre dei rischi ma anche a provare il brivido del pericolo.

La logica dovrebbe essere un punto forte di un giallo ma qui, ahinoi, la storia fa acqua in più punti;

la regia è appunto elegante ma più per singoli frammenti che nel tenere bene il “timone” tra un blocco narrativo e l’altro (alcuni episodi e personaggi sono “gonfiati” malamente e risultano poco credibili, come la timida Valeria che si trasforma in scatenata seduttrice per ingannare un informatico che collabora con la mafia, oppure l’ambiguo uomo sempre al soldo dei criminali che alla fine si innamora di lei). Gli attori si difendono bene e a tratti strappano qualche sorriso: Alessandro Gassmann nel ruolo che gli si chiede quasi sempre (ma anche con incongrua citazione di un capolavoro interpretato dal padre Vittorio), Micaela Ramazzotti un po’ timorosa un po’ no, Renato Carpentieri uomo che tira i fili dietro le quinte, e tanti caratteristi tra cui l’ottimo Gaetano Bruno nei panni di un nobile nelle mani della mafia; mentre il regista inglese, che sembra James Ivory, interpretato dal “collega” Jerzy Skolimowski è un personaggio quasi macchiettistico come tutto l’ambiente del cinema.

Ma sono l’accumulo di storie e personaggi e soprattutto i dialoghi, non sono sempre rifinitissimi, quello che zoppica nel film di Andò. Il finale in particolare – che arriva fino ai palazzi della politica e del Potere, con l’inserimento di un altro tema forte ma mal gestito – è frenetico e un po’ tirato via. Con i nodi che si sciolgono fin troppo facilmente, dopo la promettente complessità e i misteri della prima parte, per finire tutto in gloria. Con tanto di Leone d’oro di Venezia che il film nel film dovrebbe portare a casa. Troppa grazia…

Antonio Autieri