Per esaurire la personalità e il genio di Steve Jobs evidentemente non bastava un film solo, il Jobs (2013) di Joshua Stern interpretato da Ashton Kutcher. Certo l’opera di Danny Boyle (già Oscar per Millionaire) di certo non è solo un film su un uomo che ideava computers, quanto piuttosto un’altra delle biografie di nuovi americani dalle grandi pretese, come è stato anche per Mark Zuckerberg in The Social Network (sceneggiatura di Aaron Sorkin, come per questo film). Costruito come una rappresentazione teatrale col suo nevrotico “dietro le quinte” (un richiamo anche a Birdman, perché no?), in tre atti simili eppure distintissimi, il film mostra Steve Jobs (un Michael Fassbender subito nominato dall’Academy per gli Oscar) alla vigilia di quelle presentazioni di San Francisco che ogni volta segnavano una pietra miliare nel percorso dell’Information Technology. La prima data storica è il 1984, quando la Apple lancia Macintosh, il primo computer user-friendly che osò sfidare il dominio IBM dei personal computer. Ma dietro il sipario non ancora aperto della sala di Cupertino si agitano drammi e crolli nervosi da far venire crisi isteriche a tutti, inclusa l’ex fidanzata di Steve Jobs che si era portata appresso la bambina di cinque anni e che affermava essere la figlia di tanto padre. Anche perché nel frattempo Jobs rilasciò un’intervista nella quale sfoderava un algoritmo per dimostrare che esistevano 28 possibilità su 100 che il padre fosse chiunque altro. Con un balzo si passa al 1988, quando, escluso dal consiglio di amministrazione di Apple da John Scully, l’uomo che egli stesso aveva chiamato dalla Pepsi per gestire Apple, prepara la sua vendetta con un nuovo pc marchiato NeXT; e quindi al 1998, in occasione della presentazione dell’iMac. Presenza costante, in tutti questi momenti, è quella di Johanna Hoffmann (Kate Winslet): segretaria dalla perenne cartelletta in mano, confidente, a tratti anche psicanalista. Spesso unica testimone dei confronti tutt’altro che tranquilli tra il suo capo e l’ex CEO John Scully (Jeff Daniels), lo sviluppatore di fiducia Andy Herzfeld (Michael Stuhlbarg) e il cofondatore Steve Wozniak (Seth Rogen), la Hoffmann sembra essere anche l’unica capace di rintuzzare la drammatica, quasi patologica incapacità di Jobs di avere un rapporto umano con la figlia.
Sorkin decide di far svolgere i dialoghi, che sono il cuore del film, lungo interminabili camminate e chiacchierate, nelle quali si ripresentano a lui, sorta di nemesi, tutti gli ex collaboratori che a un certo punto hanno dovuto o voluto mollare, ma che si rifanno vivi prima di questi momenti di “consacrazione”, quasi con la loro presenza siano lì a carpire un po’ di quella gloria di cui solo Jobs sembra risplendere. Sorkin e Boyle decidono così di prendere una biografia tradizionale e di decostruirla, per creare qualcosa di nuovo e al tempo stesso dai richiami teatrali classici, con un’intensità viscerale accentuata dal montaggio dei lunghi dialoghi e dalle capacità degli attori, che si muovono su questo virtuale palcoscenico perfettamente a loro agio, tutti o quasi impegnati nella funzione di coro greco che faccia da contrappunto al protagonista. Così Jobs, pur non potendosi certo definire un documento agiografico, si trova comunque a rendere omaggio a un uomo geniale, lungimirante, visionario e al tempo stesso capace di grettezze e comportamenti odiosamente meschini. Difficile non paragonarlo, per intensità e realismo, a Citizen Kane ovvero Quarto potere, il capolavoro di Orson Welles sul magnate della stampa William Randolph Hearst. Un confronto che il film di Danny Boyle, a nostro parere, regge pienamente.

Beppe Musicco