“Eva tentò Adamo per mangiare dell’albero loro proibito, per diventare come Dio. Adamo ed Eva mangiarono dell’albero e furono cacciati dall’Eden”.

Spesso la Bibbia funge da efficace modello per il cinema. Accade ora in Splice, che riprende metaforicamente i passaggi del testo veterotestamentario. La trama racconta infatti dei due scienziati Elsa(Sarah Polley) e Clive (Adrien Brody), menti progressiste decise a spingersi sempre oltre nella sperimentazione su cellule animali. Incroceranno diversi dna animali dando vita a creature nuove, fino a quando una coscienza diabolica tenta Elsa ad incrociare nuovamente quei geni con del dna umano. Clive si opporrà più volte, ma Elsa insisterà con le sue tentazioni e lo convincerà ad essere suo complice. Ne nasce Dren, essere metà animale, metà donna. I due credono di aver acquistato la stessa perfezione demiurgica di Dio e proveranno ad amare quell’essere. Ma l’uomo non può sostituirsi a Dio: Dren non si farà trattare come un essere pacifico e, tra istinti animali e sentimenti umani, distruggerà il mondo dei due compagni, conducendoli ad una graduale frammentazione delle loro certezze. Quando sorgerà il pentimento, sarà troppo tardi.

Come in una vera tragedia classica, quando l’uomo rompe alcune regole sacre della realtà, tutto si distrugge attorno a lui, coinvolgendolo ad un rapido annullamento di sé. E’ ciò che qui accade. Clive lo urlerà ormai senza più forze: «Abbiamo superato un limite che non andava superato. Abbiamo cambiato le regole, le regole del bene e del male. Lo abbiamo voluto ed ora guarda cosa siamo diventati».

Tredici anni fa, il regista e sceneggiatore Vincenzo Natali (italiano solo nel nome) aveva sorpreso tutti con un’astutissima metafora labirintica della vita, partorendo il sensazionale The Cube. Dopo di allora, un solo film (il mediocre Cypher, passato sotto silenzio in Italia). Poi, più niente. Ora ritorna con un film studiato per diversi anni, ben recitato dalla coppia Polley-Brody, ma solo in parte riuscito. Se infatti la riflessione sui limiti della scienza è efficace, d’altra parte l’essere Dren non riesce mai a convincerci del tutto: non riusciamo a rimanerne affascinati, né in senso positivo né in senso negativo, soffrendo così di un certo distacco che alla lunga annoia. Inoltre spesso le azioni dei due protagonisti sono eccessivamente esasperate, soprattutto nel caso di Clive che passa improvvisamente dall’odiare quell’essere ad amarlo in modo estremo (va bene descrivere il suo progressivo degrado morale, ma la scena dell’accoppiamento con Dren è davvero eccessiva. Ne resta comunque un film discreto, con alcune sequenze ben costruite (notevoli i cinque minuti iniziali in soggettiva da laboratorio), a metà strada tra l’horror, il film di fantascienza e il dramma sentimentale. Un ibrido insomma, che proprio come Dren, interessa senza affascinare.

Andrea Puglia

 

A due scienziati capita l'occasione della vita: dar vita a una creatura ibrida sintetizzata con DNA umano e animale. Ma l'esperimento ben presto sfugge al loro controllo. La sequenza d'apertura, compresi i titoli di testa, è una delle cose migliori della fantascienza recente: la soggettiva di un “essere” che nasce con enorme fatica sotto gli occhi attenti e vigili di alcuni scienziati. Natali, già in questa sequenza, gioca a carte scoperte: l'esperimento è la vittima, l'uomo il carnefice che ha venduto l'anima alla pretesa tecnoscientifica di risolvere il problema della vita e della morte: dalle cavie mostruose saranno estratte infatti delle proteine in grado, in linea teorica, di risolvere tutta una serie di problemi e malattie, dal diabete fino ad alcuni tumori. Natali, come già ne Il Cubo il suo film più noto, gestisce bene la tensione sfruttando effetti speciali di livello e un'ambientazione claustrofobica che da una parte toglie il respiro, dall'altra rimanda alle atmosfere inquietanti dell'imprescindibile Alien. Poi la situazione si complica: per la folle pretesa di una scienziata, si dà vita a un ibrido in parte umano, in parte animale. L'immagine della nascita anzitempo del “mostro”, in realtà un feto non ancora del tutto formato, è un pugno nello stomaco, e non solo per la violenza contro natura dell'atto in sé ma soprattutto per i tanti echi attuali che tale immagine condensa: come non vedere nell'accanimento dei camici bianchi sul feto, uno dei grandi tabù del nostro tempo, il rimosso per eccellenza ?: l'ecatombe di aborti, a volte, paradossalmente nati vivi, che ogni anno si realizza nelle stanze asettiche, incolori dei nostri ospedali ? E' questo il cuore di un film di genere, non per tutti: la denuncia chiara e netta di un limite, come quello imposto dalla Natura, che se superato, può provocare la distruzione dell'umano, il sovvertimento addirittura di ogni valore, cosa che del resto si realizza nel film, in modo disgustoso, anche dal punto di vista sessuale. Splice, nonostante una seconda parte più prevedibile e di gusto anche dubbio, ha almeno tre grandi meriti: innanzitutto quello di far riferimento a una fantascienza scomparsa da troppo tempo, quella di carattere profetico e morale degli anni '50 e '60 (e nel finale la scena nella laguna rimanda proprio a un grande titolo di quegli anni, Il mostro della laguna nera). Si tratta poi di un film ricco di rimandi cinematografici e anche di registri narrativi dei più vari. Il tono fiabesco della parte centrale, con protagonista la creatura cresciuta ed educata dagli scienziati divenuti genitori insegue certe atmosfere alla E.T, film del resto carissimo a Guillermo Del Toro, qui nelle vesti di produttore, e fa a pugni con l'incipit claustrofobico alla Alien e con il finale aperto e inquietante. Da ultimo, la rappresentazione di Dren, l'ibrido anche fisicamente reso e strutturato in modo tale da suscitare al tempo stesso un moto di repulsione e di tenerezza. Uno strano essere che come Frankenstein, desidera, sogna, ama e soffre, possiede una coscienza, probabilmente limitata e fisicamente fa impressione. Un vero e proprio aborto che più di tutto e contro tutti vuole, semplicemente, vivere.

Simone Fortunato