La giovane Flor (Paz Vega), madre di una figlia dodicenne (Cristina), parte dal Messico verso Los Angeles. Per amore della figlia decide di cominciare a lavorare come governante presso la famiglia Clasky, un’agiata famiglia di Beverly Hills. L’affascinante donna messicana, che non parla una parola d’inglese, si trova coinvolta nella vita quotidiana di questa famiglia: la coppia in crisi formata dallo chef (Adam Sandler) e dalla moglie (Tea Leoni), sempre in perfetta forma fisica e letteralmente sull’orlo di una crisi di nervi, con bambini e nonn.
Chi pensava di trovarsi di fronte all’ennesima commedia americana, divertente, con personaggi un po’ superficiali, scappatella e lieto fine, si è ricreduto. Fin dal titolo (Spanglish per l’appunto) il regista James L. Brooks (noto al grande pubblico soprattutto per Voglia di tenerezza, Dentro la notizia e Qualcosa è cambiato) pone l’accento su un tema che farà da motivo di fondo a tutto il film: l’incontro fra due diversità, fra due culture (Spanglish è ovviamente l’impasto fra le due lingue, spagnolo e inglese). E nel far questo Brooks non sceglie la strada più semplicistica, limitandosi a raccontare due culture nelle loro peculiarità; cerca la strada più difficile del confronto e della convivenza, come accettazione reciproca (nell’affermazione dignitosa della propria identità) della diversità dell’altro (ad esempio su un tema universale quale il bene dei propri figli: sembra poco?). Brooks parte da questa realtà per creare una storia che sa essere insieme, come tutte le più grandi storie “comuni”, sociale e privata, mescolando spirito californiano e fantasia latina, e usando i toni di quel tipo di commedia americana che non rinuncia a momenti drammatici e a temi profondi e per questo universali.
Nel film c’è una grande attenzione nella costruzione dei personaggi e nel loro sviluppo. Attraverso lo sguardo semplice di Flor lo spettatore scopre i protagonisti di questa casa, con le loro manie e fragilità, e li vede via via cambiare, riscoprire se stessi. Nessuno è esente da questa evoluzione (si pensi alla suocera di John – l’indimenticabile Frau Blucher di Frankenstein Junior – all’inizio donna dedita all’alcool e ai bei ricordi, che alla fine riscopre la sua responsabilità di madre); al contrario, per tutti, in qualche modo, l’evolversi della storia è terreno fertile per mostrare il valore del sacrificio che amare richiede, che vivere implica una responsabilità. Spanglish racconta tanti amori possibili: quello tra Flor e sua figlia, che scopre la sua più vera identità attraverso l’accettazione delle scelte (a volte dure) della madre; quello (a tratti poetico e autenticamente romantico) fra Flor e John, che accettano il sacrificio di un distacco per il bene dei figli; quello della moglie di John, che dopo averlo tradito riscopre il valore del legame con lui.
Cosa dire poi delle ultime battute del film, in cui emerge in tutta la sua carica umana il tema dell’identità: quando Flor chiede a sua figlia, ponendola di fronte al significato della propria vita, “E’ questo che vuoi per te stessa? Diventare una persona tanto diversa da me?”, attraverso la voce fuori campo lei afferma: “La mia identità si fonda saldamente su un unico dato di fatto: io sono la figlia di mia madre”. Un tema per una volta guardato con rispetto, in un film che ci dice che il vero rapporto tra due “diversità” può nascere più fecondo se ciascuna delle due (o anche una sola, come in questo caso) viene difesa da chi la vive al di fuori da ogni tentazione “relativista”. Una parola infine sugli attori: brava Tea Leoni nel fare la nevrotica e deliziosa Paz Vega, mentre Adam Sandler – comico americano che in Europa non ha mai sfondato con i suoi film demenziali – nel suo candore ferito trova la seconda parte “seria” della sua carriera dopo quella di Ubriaco d’amore.
Cecilia Spera