Nel 1996 la Warner Bros decise di celebrare il ritorno al basket di Michel Jordan con Space Jam, che metteva accanto al campione alcuni dei personaggi storici dell’animazione della major, come Porky Pig, Duffy Duck e Bugs Bunny. Sono passati 25 anni, Michel Jordan è stato sostituito da LeBron James, ma se paragonato al primo film, qui il suo ruolo appare ben inferiore alla parata dei personaggi d’animazione.
LeBron e il suo figlio tredicenne Dom (Cedric Joe) – che è già un esperto nella creazione di videogiochi – mentre si trovano negli Studios della Warner Bros vengono intrappolati nel “Warner 3000 Server–Verse”, un gigantesco spazio digitale che ospita tutti i personaggi, (reali o animati) degli infiniti film della casa e governato da un algoritmo che ha le fattezze di Don Cheadle e il nome di Al-G-Ritmo. Fedele al suo scopo, Al analizza istantaneamente tutto quello che passa in rete e lo riposiziona in modo da attirare nuovi utenti; e LeBron, inserito in vecchi e nuovi film, può attirare nuove schiere di spettatori. Così LeBron e Dom vengono risucchiati nello spazio del computer, per schierarsi in una sfida cestistica tra padre e figlio. Mentre Dom ha dalla sua parte Al-G-Ritmo e dei nuovi, temibili e inquietanti compagni di squadra, a LeBron toccano i vecchi e cari Looney Tunes.
Qui sorge la prima obiezione: avendo a disposizione un personaggio come Bugs Bunny, uno capace di affrontare la più pericolosa delle situazioni con inalterata sicumera, perché non lasciargli il campo libero? Perché non sfruttare le sue illimitate possibilità comiche invece di relegarlo a timoroso personaggio secondario, lasciando più spazio a personaggi minori, come l’insopportabile nonnina di Titti? Non è che Space Jam – New Legends non offra abbastanza sprazzi del bizzarro umorismo cui i cartoons ci hanno abituati, e che ancora sono in grado di far ridere i più piccini. Ma il film va talmente veloce attraverso il racconto per arrivare alla partita di basket tra LeBron e Al-G-Ritmo, che non c’è il tempo per indirizzare le battute e le situazioni in una direzione coerente. Laddove il primo film in fondo era solo una trovata di marketing per valorizzare la sua star Michael Jordan, questo tenta di arrivare a un livello più profondo per mostrare come un atleta anche del calibro di LeBron James, che si è rigorosamente allenato per il basket fin dall’infanzia, potrebbe avere difficoltà a relazionarsi con i propri figli. È un terreno potenzialmente interessante per un approfondimento, ma la sua serietà è fuori luogo in un film che è quasi impossibile non vedere come l’ennesimo capitolo di una cultura della nostalgia che gli stessi studios continuano ad alimentare da anni.
Beppe Musicco