Checco Zalone, per la terza volta in un film. E ancora una volta il suo personaggio si chiama proprio così, Checco Zalone: la maschera di Luca Medici, vero nome del comico, che è tutt’altro il “cozzalone” tamarro e greve diventato popolarissimo prima in tv e poi al cinema. Se in Cado dalle nubi e Che bella giornata – oltre a temi “sociali” declinati in modo simpatico e non banale (il razzismo contro i meridionali, l’omosessualità, lo “scontro di civiltà” con i musulmani e la tentazione del terrorismo) – prevalevano storie d’amore, ben raccontate e non scontate, in Sole a catinelle il cuore narrativo è il rapporto tra un padre inadeguato e un figlio di dieci anni, dolcissimo e buono. E pure studioso: quando il padre, che da venditore dell’anno della sua azienda di aspirapolveri va in crisi e non batte più chiodo e non ha più un soldo per colpa dei troppi acquisti con prestiti da finanziarie, gli promette una vacanza “da sogno” se a fine anno scolastico prenderà tutti 10 in pagella, non immagina mai che il suo Nicolò ci riesca… Zalone, controvoglia (e contro la moglie, che cerca di salvare la fabbrica dove lavora e il posto da operaia e che è esasperata dal suo stupido ottimismo), lo porta in vacanza. Ma il suo vero scopo è piazzare aspirapolveri a parenti in un paesino del Molise che si rivela una disfatta per lui e una trappola per il figlio; che teme anche una definitiva separazione dei genitori e che vorrebbe tornare da mamma. La vacanza è già finita? No, una serie di vicende paradossali, assurde, fortunate, incredibili rimetteranno padre e figlio on the road. E stavolta con il piede giusto. Per Checco e Nicolò sarà davvero una grande vacanza.
A Zalone, che scrive le sceneggiature insieme al regista Gennaro Nunziante (una coppia consolidata anche da anni di collaborazioni televisive e di show nei teatri), non si deve chiedere il “messaggio”: Zalone e Nunziante sanno che un film comico, o una commedia brillante, per essere oneste con chi paga il biglietto devono soprattutto far ridere. E loro lo sanno fare bene. Ma non scelgono mai scorciatoie, colpi bassi, soluzioni di cattivo gusto. Si equivoca perché il personaggio, tamarrissimo come da soprannome (quello vuol dire, “cozzalone”), dice le parolacce e insulta chi gli capita a tiro. Ma non c’è nulla di volgare, e il suo umorismo “politicamente scorretto” è una boccata di aria fresca contro ipocrisie, luoghi comuni e tabù intoccabili: altri comici, più furbi, sanno chi devono sfottere e chi non possono nemmeno sfiorare. Zalone e Nunziante se ne fregano. E quindi qui si mettono alla berlina ricchissimi e poveri che vogliono diventare anche loro ricchi (Checco) oppure si segnalano per grettezza (la zia tirchissima), vegani e psicologi, ignoranti e registi di cinema “intellettuali” che si credono grandi autori, imprenditori progressisti ed europeisti che imbrogliano con la finanza e imprenditori antieuropeisti che non si vergognano delle proprie idee “selvagge”, berlusconiani in sedicesimo e comunisti cheguevaristi… Tante le gag, a tratti anche troppo veloci per stargli dietro; e se l’effetto sorpresa si è un po’ perso, perché Checco ormai è una star, battute cult e momenti da antologia non si contano: dalla risposta agli emissari di Equitalia (“No grazie, qui siamo cattolici…”) all’ingresso in massoneria, da una telefonata che svela troppi segreti alla Guardia di Finanza a una cena di gala in cui Checco fa saltare i nervi ai padroni di casa e ai loro sodali (come l’imprenditore con moglie più giovane della figlia). Ma ci sta dentro anche tanto sentimento: se la moglie, che lo vuole lasciare e non saperne più di lui, è figura un po’ defilata, il rapporto con il figlio è bellissimo grazie anche a un ragazzino prodigio (Robert Dancs, undici anni, di origine rumena e presente bergamasco) che incarna con candore un figliolo spesso spazientito dal suo papà ma che comunque crede in lui. È o no un “superpapà”, come da canzone sui titoli di testa corredata da una brillante animazione (c’è molta più innovazione in certi dettagli di questo film che in tutto il cinema comico recente)? E risulta felice anche l’inserimento di un’altra coppia, madre ricchissima con figlio affetto da mutismo “selettivo” che si sblocca con l’uragano Zalone. Altre figure sono più da contorno, volutamente poco definite per non mandare fuori giri il motore della storia.
E poi c’è l’Italia, con le sue bellezze: da Padova, dove vive la famigliola, al Molise prima tappa del viaggio in un posto popolato di soli vecchi, dalla Toscana alla Portofino snob. Un’Italia bellissima, popolata di gente squallida o fantastica. Raccontata con affetto e senza cinismo: una parola che, giustamente, Gennaro Nunziante detesta. Anche quando gliela si porge come complimento a una comicità “cattiva”: quella ideata da lui e “servita” da Checco Zalone è invece graffiante e mai “buonista”; non certo cinica. Ma con un’idea della società e dell’Italia che privilegia il costruire e ripartire (la fabbrica) al distruggere, la realtà alla fuga da essa, la famiglia alla dissoluzione dei rapporti. Semplicismi, per qualcuno che non capisce come la felicità possa essere una semplice ecografia… Chicca finale: i titoli di coda, con la (geniale) canzone “Dall’ovaia a Gaia” e immagini di un video di famiglia: quella bambina è proprio Gaia, figlia di pochi mesi del comico; tanto da far pensare che tutto il film è un omaggio a lei, che deve aver proprio stregato il cuore a Luca Medici, in arte Checco Zalone.
Antonio Autieri