Sofia vive in Marocco. La sua famiglia sta per concludere un accordo che permetterà quel salto sociale, quella pace economica di cui ha bisogno. Ma proprio durante un pranzo di famiglia, che sta per sancire gli accordi giusti tra il padre e il cognato, Sofia non si sente bene. E lì in cucina si consuma la verità: Lena, sua cugina e futura oncologa, la raggiunge e scopre la verità nascosta. Sofia sta per partorire. Con la scusa del mal di stomaco Lena porta la cugina in ospedale, ma l’unica realtà ospedaliera che può chiudere un occhio sul codice penale, che stabilisce la prigione per i rapporti al di fuori del matrimonio, è quella dove lavora lei. Chi sarà il padre di quella bambina? La ricerca del possibile padre, un disoccupato orfano di padre che vive in un quartiere povero di Casablanca, avvia, inesorabilmente, il vero motore del film.

Nel bell’esordio nel lungometraggio di Meryem Benm’Barek, regista marocchina che vive in Francia (premio per la migliore sceneggiatura nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes) la storia si sviluppa attraverso momenti e confessioni inaspettate e dipinge un quadro non edulcorato di un Marocco che cerca di costruire il suo futuro. Però le vere sbarre non sembrano tanto le leggi, i codici o il peso sociale affidato agli uomini. Il vero limite in cui tutti i personaggi si scontrano è la libertà, non solo di genere, ma quella soggiogata dalla ricerca del potere e limitata dal divario sociale.

La macchina da presa di Meryem Benm’Barek si muove nei quartieri marocchini e nelle stanze interne dove gli uomini determinano il futuro delle donne e dove i ricchi hanno forza decisionale. Ma quello che si scopre, pian piano che entriamo di più nella storia e nelle vite dei personaggi, è che le donne, apparentemente senza un’attiva identità sociale, sono le vere protagoniste della scena. Sono quelle che sciolgono i legami, scelgono il futuro, manovrano gli altri per costruire una realtà perfetta, densa di quella forma che orienta le relazioni verso una verità esterna e finta. La neonata, elemento scatenante della storia, esiste, piange, ha fame, ma non ha nessuna importanza né spazio narrativo.

Meryem è una regista e sa quali sono i meccanismi che scatenano l’empatia tra la storia e lo spettatore; eppure non punta a realizzare un film sulla tenerezza. Mira a far comprendere che la realtà è una struttura complessa e mai facilmente decodificabile. Ci si può facilmente sorprendere dagli eventi, ma quali sono quelli che veramente si subiscono, si accettano? Sofia sembra una vittima mediocre della società, resa fragile dalla vita: man mano che si sviluppa la storia (la regista ha ammesso che deve molto del suo cinema ai primi film dell’iraniano Asghar Farhadi, premio Oscar con Una separazione e Il cliente), si scopre che la verità non può mai essere chiusa in un angolo o osservata. Che le nostre azioni e decisioni rischiano di subire il fascino leggero, prima, e il pesante fardello, poi, del potere.

Emanuela Genovese