Tratto da un omonimo testo teatrale di Anthony Shaffer, già portato al cinema nel 1972 da Joseph L. Mankiewicz, con Laurence Olivier nella parte che qui è di Michael Caine e lo stesso Caine in quella che qui è di Jude Law, “Sleuth” (un termine popolare della lingua inglese che significa “investigatore”, “segugio”) ci mostra niente altro che due attori che recitano. Entrambi i personaggi infatti, nel corso del film, indossano una maschera, si mettono in scena e si producono in una performance. A conti fatti, “Sleuth” è un film che parla del teatro e della sua seduzione. Sui titoli di testa, senza vedere ancora niente, udiamo il ticchettio inconfondibile della tastiera di un computer. Non lascia dubbi questo incipit, la vera protagonista del film è la parola, anzi la scrittura. Sul fascino a volte insidioso della prima e sul virtuosismo a volte manierista della seconda insiste la sceneggiatura ed è la seconda volta nella stagione cinematografica 2007/2008 (la prima era stata con “Espiazione”) che il ticchettio di una tastiera introduce alla visione di un film con un rumore continuo, insinuante e ipnotico come quello della pioggia battente. A dispetto dei tanti gadget tecnologici di cui è munito questo palcoscenico (così tanti da sfiorare la gratuità e l’inutilità), il gioco al massacro in cui veniamo intrappolati insieme ai protagonisti non necessitava per compiersi di un’attrezzatura avveniristica. Il duello ambiguo e perverso cui assistiamo si svolge sul terreno della dialettica, le parole vengono scagliate come pietre o usate come armi affilate. In questo – ed è purtroppo il limite del film – “Sleuth” appartiene molto più allo sceneggiatore Harold Pinter che al regista Kenneth Branagh. Forse non valeva la pena scomodare un premio Nobel, e veniamo al punto, per sciogliere la finezza di questo duello rendendo esplicite tutte le tensioni latenti (una per tutte, quella omosessuale) per cui l’idea geniale che la contesa della donna diventi per i due quasi solo il pretesto per una gara d’intelligenza mirata al dominio dell’altro (su cui facevano leva la pièce di Shaffer e il film di Mankiewicz) viene sciupata tra cadute di stile e battute di grana grossa. Il gioco (“the play”, che in inglese indica anche la pièce teatrale) si fa sempre meno intrigante man mano che viene allo scoperto, lì dove poteva sfruttare le sue potenzialità proprio lavorando sull’allusione e sul sottinteso.,Raffaele Chiarulli